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La sinistra dopo il virus

Goffredo Bettini

No nostalgia, no repubblica dei pm, agenda contro la solitudine. Idee per il post

La solitudine è la cifra della nostra epoca. Una condizione che De Rita definisce “sabbiosa”, Baumann “liquida” e Byung-chul Han “uno sciame”. Sono cadute “le forme”. Tutte “le forme”. E’ una condizione terribile per gli esseri umani; che perdono così i parametri della vita. Gettati fuori dalla propria casa interiore, si ritrovano nudi di fronte al destino, in una società che si muove perennemente ma che ha cessato di produrre senso. Ansiosi, scrutano cieli muti e sperano in eroi che non si svelano. I popoli sono dispersi e fanno massa indistinta: “antropologicamente democratica”, politicamente inerme. La caduta delle “forme” non è solo un problema politico: piuttosto di “civiltà”. Con “le forme” gli esseri umani hanno fronteggiato il caos della materia. Hanno nominato, distanziato, ordinato e trasformato le cose. Sono “le nostre forme” che illuminano per noi e solo per noi l’oscurità dell’universo.

  

Nel ‘68, si avvertirono i primi segni di questa caduta, poi tutto si accentuò nel ‘77 e diventò dilagante dopo il ‘92. Per responsabilità della politica e delle grandi trasformazioni economiche, sociali, culturali e antropologiche spinte dai processi globali. Il ‘68 fu una spinta salutare, di massa e generazionale per il superamento della antica morale, sopravvissuta dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, per la prima volta, introdusse in forma evidente uno squilibrio tra i diritti, i bisogni, i desideri delle persone rispetto alla responsabilità di costruire l’alternativa predicata con l’impegno, la fatica, il realismo e la democrazia organizzata. Per questo motivo, l’effetto di quel movimento fu molto forte circa i costumi e un avanzamento civile, ma molto di meno in riferimento ai rapporti di forza e di potere nella politica e tra le classi. Altra cosa fu il ‘69 operaio, che ebbe un percorso in gran parte autonomo e diverso. La sinistra, comunque, in quel frangente, non ebbe la forza di assumere il senso della “rottura” avvenuta, trasformandola in “forme” nuove. Da lì iniziò, solo iniziò, un’aporia tra le strutture tradizionali della politica e la società in movimento. Poi con l’irruzione improvvisa, estesissima e violenta della rivolta del ’77 si sancì la separazione, in seguito mai più superata, tra le nuove generazioni e le organizzazioni sindacali e i comunisti italiani. Se il ‘68 aveva avuto in sé una speranza, Il ‘77 cercò la vendetta. Il “tutto e subito” delle piazze parigine di maggio si trasformò da invocazione un po’ sognante a pratica concreta e immediata di lotta; per conquistare gli obiettivi con la forza e non attraverso una qualche interlocuzione con le istituzioni. Espropri proletari, cortei armati, occupazione degli spazi politici con la prepotenza e la minaccia, l’odio per i partiti di governo, considerati i grandi responsabili della politica di austerità e di sacrifici.

 

Da allora ci fu una ulteriore accelerazione della caduta delle “forme”. Dal movimento violento scaturì per vari percorsi il “partito armato”, una “deformazione” drammatica e grottesca delle “forme” di azione politica di massa; riducendola a una organizzazione militare in guerra; non di rado infiltrata o eterodiretta proprio dai poteri destinati a essere abbattuti. La guerra non è affatto la politica combattuta con altri mezzi. E’ la fine della politica, è l’inizio di un altro discorso svolto con un altro linguaggio.

 

La stagione della violenza lasciò un terreno sconnesso di risentimenti, di fallimenti, di disperazione, di trasformismo, di pentitismo o di una rapida e talvolta impudica integrazione nel ceto dirigente italiano, anche di sinistra. Non pochi si parcheggiarono sulle panchine dei quartieri popolari delle grandi città a “farsi” di eroina, la manifestazione più dolorosa di una generazione travolta dal riflusso. Anche i grandi partiti di massa imboccarono la strada del declino. Come se si fossero consumati interamente nella prova, fallita, per una loro insolita concordia. Il Pci si ritrasse e fu salvato, per quel che poteva in quella condizione, dal carisma di Berlinguer; la Dc vagò senza bussola fino ad aggrapparsi, dopo la sconfitta dell’83, alla figura di Craxi. Ma tutto era destinato a convergere nel fatidico triennio 1989-92, dove avvenne la sepoltura definitiva delle vecchie forme. In attesa, poi delusa, di quelle nuove. Il sistema dei partiti, infatti, non seppe reagire. Né a Tangentopoli né alla fine del vincolo esterno della Guerra fredda che era stato comunque un principio ordinatore. Non si valutò la portata storica della caduta irrimediabile dei soggetti politici che avevano favorito il rapporto tra il potere e il popolo. La ricerca di qualcosa di diverso fu confusa, superficiale, opportunistica. Tant’è che all’orizzonte non apparvero nuovi protagonisti coerenti, radicati, e capaci di esercitare nel nuovo scenario che si era aperto, la funzione di rappresentanza che era stata così viva nei trent’anni “gloriosi” della democrazia italiana. La sinistra non riuscì a prendere le misure ai processi globali. Tra neoliberismo e fine ingloriosa del comunismo non elaborò una sua funzione, una sua missione, un suo modello di società e un suo sistema di valori. Una minoranza diventò apocalittica e la maggioranza subalterna e integrata.

 

Questa incapacità di cogliere la portata del passaggio epocale creò un vuoto. Riempito, per molti anni, come sappiamo, dal protagonismo dei magistrati. Ma, poi, inevitabilmente venne in campo l’antipolitica, la personalizzazione patologica delle competizioni elettorali, il qualunquismo, l’evanescenza di movimenti, proteste, campagne di “pancia” che, a consuntivo, hanno lasciato un paese stremato e deserto. Spesso la sacrosanta rivolta contro l’ingiustizia, il malessere, l’emarginazione particolarmente acuta nell’Italia di oggi, rifiutò il terreno di una democrazia progressiva, impossibile senza grandi formazioni politico-culturali, valoriali, e si arruolò all’esercito della demagogia, dell’odio, della ricerca del nemico esterno a cui addossare le colpe. E’ storia nota. Piuttosto la considerazione da farsi è che questa decomposizione del tessuto sociale e politico si è intrecciata all’energia potentissima della globalizzazione, che ha cambiato in pochi anni i paradigmi di vita, i modi di produzione, la velocità e le forme della comunicazione; tutto nel segno della massima atomizzazione degli individui. Si sono avuti frutti positivi di questi fenomeni nei paesi all’inizio del loro sviluppo. Ma in occidente è stato colpito alla radice l’impianto della nostra cultura. La stessa visione della persona umana, artefice insieme ai suoi simili di un riscatto e di una redenzione.

 

Di fronte a questa catastrofe antropologica non credo che bastino più dei governi migliori ai precedenti, le ricette economiche rassicuranti nel medio periodo, qualche valore umano degno e l’incitamento alla speranza. Almeno per la sinistra non può bastare. Che aspettiamo a chiamare, sulla base di un allarme di civiltà, le migliori menti del paese (filosofi, economisti, scienziati, scrittori) per un ripensamento dalle fondamenta dell’Italia e dell’Europa? Il coronavirus può essere una maledetta occasione. Il virus ha svelato un aspetto fondamentale: la solitudine delle persone. Ha reso estremo un fenomeno al quale ci siamo abituati. La mancanza di legami, la dispersione delle famiglie, la marginalità degli anziani, l’esiguità delle reti pubbliche, politiche e associative in grado di sconfiggere la disperazione di chi non ha letteralmente alcun aiuto al quale aggrapparsi. Ci sono storie commoventi di persone conchiuse in sé stesse, senza soldi e con scarsi affetti; di vecchi parcheggiati in istituti pubblici sovraffollati che muoiono in silenzio. Ma anche di una “fretta” a ricominciare subito come prima, nonostante le vittime; senza che si affacci, non dico si pratichi, ma solo si affacci, l’idea di un diverso sistema di produzione, di organizzazione e di vita. Questo virus inafferrabile ci inquieta così tanto perché segue, in una danza macabra attorno a noi, il movimento di una società precipitata da tempo nell’anonimia, nel narcisismo, nell’alienazione consumistica, nell’oblio di una qualsiasi alternativa. Il virus insegue milioni di “lapilli” umani che già vagavano solitari e “deformati” dopo il big bang delle “forme”.

 

Ma come si raffredda il nucleo di questa esplosione che getta la vita sempre più lontano dalla nostra “casa” interiore? C’è la possibilità di affrontare insieme al virus letale la grande angoscia del nulla che la caduta delle “forme” ci ha fatto balzare davanti agli occhi? In questa epidemia la scienza sta difettando; com’è ovvio, essendo essa stessa il frutto del pensiero umano e quindi dei suoi limiti. Mille annunci, pareri, previsioni. Ma nulla di certo. La tempra eroica dei medici e degli infermieri fronteggia un male ancora ignoto. No. La scienza non ci può salvare. Il denaro ci può alleviare le sofferenze. Ma il denaro finisce. Anzi l’anarchia del modo attuale di produrlo amplifica l’incertezza e la precarietà che avvertiamo. Fra crisi, speculazioni, improvvisi cambi di scenario ci si sente oggetti inermi più che consapevoli protagonisti. No. La ricchezza, peraltro così male distribuita, non ci può salvare. C’è la fede. Ma la fede è un dono. Non si compra al mercato. E’ una grazia che non si concede a tutti. La maggioranza ne è priva e la minoranza che la possiede non è in grado di insegnarla agli altri. Non arriva dall’esterno; piuttosto dal profondo del cuore. No. Anche la fede non ci può salvare. Cosa resta?

 

Molti oggi si domandano come sarà il tempo del dopo virus. E’ difficile dirlo. Immagino due esiti e, allo stato attuale, non sono affatto sicuro quale dei due prevarrà. Il primo può essere, dopo la paura, una paradossale nuova spinta a riappropriarsi di tutti i piaceri, le comodità, i prodotti, le possibilità che offre il mondo contemporaneo, con ancora più voracità, stordimento ed egoismo. Una sorta di nostalgia da remunerare rispetto a tutte le cose temporaneamente perdute. Il secondo può essere, invece, l’apertura a un nuovo approccio alla vita. La consapevolezza della nostra fragilità e dei nostri limiti. L’impossibilità di superarli in ordine sparso come monadi autocentrate. L’accettazione del nostro destino, dicendo tuttavia un sì alla vita e al suo mistero meraviglioso. E allora: la ricerca dell’altro, che condivide quel destino. Perché nulla intimorisce di più che morire soli (Canetti). Rispecchiandoti nella condizione dell’altro, rinfranchi la tua condizione. Trai la forza per attraversarla e afferrare ciò che può dare, nonostante tutto, di gratificante, di ricco e di espressivo. Se prevalesse questo esito, l’arretramento civile e antropologico che ci ha devastato potrebbe arrestarsi, invertire il cammino, determinare una nuova disponibilità. Ma tutto sarebbe vano, se l’occasione andasse perduta da parte della politica, abitata oggi da troppi “nani” che neppure vagamente intercettano questi pensieri. Essi hanno continuato durante la diffusione del virus a esternare le loro miserie. A inseguire confusi e infondati calcoli elettorali o di potere. Se emergesse tra la gente una nuova consapevolezza, anche solo intuita, sarebbe, invece, il momento di un ritorno della vera politica, della grande politica. Di un atto di volontà, di avanguardia, di responsabilità in grado di sbarazzarsi della stagnante quotidianità di questo inizio di secolo: dei balbettii, delle prudenze, degli equilibrismi, della paura per ogni decisione che può far pagare un prezzo. Dal Novecento sembra come avessimo ereditato il materiale di scarto piuttosto che il suo coraggio e le sue altezze, che pure il secolo ha avuto in mezzo a tante tragedie. Non penso affatto a una grande politica in quanto titanica, nevrotica, racchiusa nell’atto estremo di un leader. Al contrario: la immagino in grado di assumere il suo limite, il disincanto rispetto alla “forza”, come avrebbe detto Moro, la spinta a intensamente fare sul terreno che gli è concesso. Questa politica dovrebbe saperla produrre una sinistra umana.

 

L’89 ha lasciato in campo una sola ideologia. Il liberismo fondato sull’individualismo proprietario. L’89 ha definitivamente sbugiardato l’ideologia del comunismo realizzato, e il sogno di quello non realizzato brilla ormai di luce fioca destinata a spegnersi. Ma se la nuova èra che avanza è giusto che neghi l’ideologia (e dovrebbe rapidamente negare anche quella dello strapotere che attualmente ci domina), non deve e non può negare i progetti umani. La contemporaneità sta rendendo ancora più acuto il sentimento di essere casualmente “gettati” nel mondo. Senza casa. Ma non si può vivere senza casa, senza le “forme” che ci proteggono e danno senso. Queste nuove “forme” debbono essere pensate, costruite, alimentate dal pensiero di una sinistra colta e alla necessaria altezza intellettuale e morale. Perché le nostre “forme” debbono contenere la misura e la sobrietà della ragione emotivamente sostenuta dal cuore, le responsabilità e non solo i diritti, la vitalità degli sguardi diversi che si incrociano e non la concentrazione sul proprio ombelico, l’armonia che combatte la ricchezza spropositata e l’insostenibile povertà, che elimina la volgarità per affermare la grazia, che riporta il piacere all’interno delle persone sottraendolo alle merci che alla fine si sciupano nella loro inevitabile ripetitività e inutilità. E infine, che ritrova il senso della patria, non tanto nella difesa dei confini, ma nella storia che ci unifica, nelle strade, nelle piazze, nei portoni, nelle finestre, nei libri, nei pensieri, nell’arte, nella musica che ci percorrono dentro a formare il nostro sé. E allora, forse, potremmo sentire l’Europa, come lo spazio più autentico della nostra patria; grazie a quel miscuglio di popoli che sono riusciti, nonostante terribili guerre, a passarsi continuamente il filo della storia. La sinistra umana ha il compito di progettare questa sua “forma”. Certo, ogni “forma” ha bisogno per comporsi della forza. E la forza può tramutarsi sempre in violenza. Ecco perché una politica che concentra la forza e il potere, per dare “forma”, deve sapere sciogliere questi due elementi per poi raggrumarli ancora; in un perenne ripetersi di un processo che rivoluziona e in seguito pacifica. Ma non è anche la grande arte che gioca continuamente tra un’energia creativa interna che si espande e la necessità di un limite che il linguaggio pone, affinché quell’energia non debordi e così spargendosi si sprechi? La grande politica ottiene il massimo perché non chiede il troppo, non oltrepassa il confine oltre il quale si sfrangerebbe.

 

E’ il momento di tentarla. Allora potremo dire: sì, forse è la politica che ci può salvare.

Questo testo è l’introduzione di Goffredo Bettini al libro “Il compagno C.”, su Bettino Craxi, scritto a quattro mani con Carmine Fotia, di prossima uscita per la casa editrice Ponte Sisto.

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