Per superare la quarantena accendete Netflix

Mariarosa Mancuso

Non vi va più di leggere? Guardate “The End of the F***ing World”, favola nera né troppo corta né troppo lunga

Conviene guardare una serie lunga lunga? Magari “I Soprano”, 86 episodi da un’ora: ci mancano da tanto, e grazie al clamorosamente bravo showrunner David Chase si possono vedere e rivedere (chi non li ha ancora goduti, bersaglio di tutta la nostra invidia, li trova su Sky On Demand, Chili, Now Tv). O conviene guardare una serie più maneggevole? Vantaggio: non restare prigionieri quando il “tutti a casa” finirà.

 

“La bravura del narratore (nei libri, nei film, nelle serie) sta nel tenere la fine lontana dell’inizio”, sosteneva Nick Hornby. Se ne deduce che la fine di una storia, sia pure in lontananza, si deve intuire. Questa era la teoria, clamorosamente smentita. Ha scritto una serie – “State of the Union”, diretta da Stephen Frears e presentata lo scorso gennaio al Sundance Film Festival – di dieci episodi. Lunghezza: dieci minuti ciascuno. Un film di ragionevole durata, troppo poco per venire in soccorso se vogliamo una serie. E pregustiamo il brivido provocato dal salto dei titoli di coda per passare all’episodio successivo.

 

La giusta misura esiste, si intitola “The End of The F***ing World”. Due stagioni da otto episodi, della durata di mezz’ora ciascuno. Abbastanza per abbandonarsi alla storia, dimenticando cosa accade fuori. Senza però sentirsi prigionieri della storia medesima – se non si è frivoli, civettuoli, traditori con i libri e con le serie, con cosa dovremmo esserlo? La serie di Jonathan Entwistle, tratta dalla graphic novel di Charles Forsman (001 Edizioni), ha altre lodevolissime qualità. Cattura l’attenzione grazie a due giovani attori strepitosi, Jessica Barden e Alex Lawther. Non consente di distrarsi, giacché rifugge dalle sottolineature: “Qui è dove i giovani amanti scoprono di essere fatti l’uno per l’altra” (e via con la musica: si chiamavano sviolinate, ed erano in effetti voluttuosi violini, ma anche il pop serve egregiamente allo scopo). 

 

 

Se non avete visto la prima stagione di “The End of The F***ing World”, è qui che dovete smettere di leggere e buttarvi su Netflix. La serie era prodotta da Channel 4, così si spiega una certa disinvoltura nei temi e nel linguaggio: gli algoritmi al massimo generano gli adolescenti di “Tredici” (l’altro scandalo generazionale intitolato “Euphoria” veniva da Hbo). Se l’avete vista, saprete che Alyssa e James sono stati presi da amoroso incantamento, hanno ucciso un uomo molto cattivo, sono fuggiti nella foresta. Una favola nera che era cominciata anche peggio: James aveva infilato la mano nell’olio bollente di una friggitrice, aveva ucciso una serie di piccoli animali, e voleva provare con qualcosa di più grosso. Per questo mette gli occhi su Alyssa (sono già svenute le psicologhe? Sì? Allora andiamo avanti).

 

Alla fine della prima stagione James era a terra, sparato dai poliziotti in una pozza di sangue. Ripartire non è stato semplicissimo, ma le idee buone ci sono, i dialoghi restano fulminanti, e i nostri Romeo e Giulietta (perfino un po’ anzianotti rispetto hai due di Shakespeare) entrano in scena dopo essersi fatti attendere. Prima c’è Bonnie, ragazza nera cresciuta da una mamma tigre, che esce di galera. “Tutto questo si chiarirà nel secondo capitolo”, insegnava Snoopy scribacchino, dal tetto della sua cuccia.