Illustrazione sull'Uomo della folla di Edgar Allan Poe, Harry Clarke

La modernità e la folla

Mariarosa Mancuso

Non esiste l’una senza l’altra. Edgar Allan Poe l’aveva capito e spiegato in uno dei suoi racconti meno letti

Osiamo solo ora, ci sarebbe un minimo conflitto d’interessi. Ma non possiamo garantire che tutte le raccolte di “Racconti” di Edgar Allan Poe contengano davvero tutti i racconti. Charles Baudelaire, per esempio, passò vent’anni a tradurre l’americano dimenticando una storia strepitosa: trattasi di lezione di scrittura con esercizio svolto (da una cretina piena di buona volontà). La impartisce Mr Blackwood. Blackwood come la migliore rivista che pubblicava racconti a sensazione (nella letteratura alta entreranno con ritardo, attenti quando parlate di Stephen King). Baudelaire non voleva sapere che il suo spirito gemello – “frasi che io avevo pensato, e che lui aveva scritto 20 anni prima” – preferiva la combinazione all’ispirazione.

 

Erano d’accordo invece sul flâneur, il gentiluomo che passeggia per le vie della grande città osservando i passanti, le vetrine dei negozi, la gente seduta ai caffè. Per farla breve, comprensibile, e attuale: erano d’accordo sulla modernità. (Non è vietato camminare nei sentieri di campagna, cogliendo primule e margherite, ma capite bene che è una faccenda diversissima).

 

Il contributo di Edgar Allan Poe alla modernità è “L’uomo della folla”, racconto che nessuno legge mai. Non ci son gatti neri, o cugine morte a cui cavare i denti, o maschere della Morte Rossa che sotto il sudario niente. Neanche lettere rubate, donne morte ammazzate in una stanza chiusa dall’interno, pensieri e parole incatenati che Monsieur districa con la destrezza di Houdini. Lo trovate nell’edizione Feltrinelli, a modico prezzo anche su kindle (tradotto da me: chiusa la parentesi sul conflitto d’interessi).

 

La modernità e la folla. Non esiste l’una senza l’altra, chiunque voglia farci tornare nei borghi rimette indietro la lancette dell’orologio di secoli. Edgar Allan Poe racconta la città affollata, prima dalle finestre di un caffè londinese. Il narratore ha appena finito una convalescenza, si capisce che l’uscita cittadina lo mette in uno stato d’animo che è il contrario dell’ennui – qui una frecciatina preventiva a Baudelaire c’è (perdonateli, sono scrittori, su due uno è già di troppo).

 

Studia i passanti, il narratore. Cerca le relazioni, distingue gli impiegati delle vecchie ditte dagli impiegati delle ditte appena fondate (oggi potrebbero essere le startup, o gli hipster che servono caffè e riparano biciclette, anche nello stesso negozio). Comincia a distinguere qualche borseggiatore. Passa ai venditori ambulanti e agli artigiani, ai mendicanti, alle puttane d’alto e basso bordo (che invidia, in quarantena possiamo solo giocare alla “Finestra sul cortile”?). Arriva un uomo piuttosto malconcio, abiti cenciosi ma di tessuto fine. Il narratore lo segue, come ipnotizzato. E’ l’uomo della folla che non sta mai fermo. Si accascia quando attorno a lui circolano poche persone, ritrova energia negli assembramenti. Piazze, mercati che chiudono, bassifondi, mercati che riaprono. Nessuno ha mai raccontato meglio il fascino della città affollata. Se volete decrescere, fate le vostre sconcezze da un’altra parte.