(foto LaPresse)

Voglia di pane

Mariarosa Mancuso

La strana passione da quarantena per glutine e lievito madre non è solo cucina, è meditazione

Ma perché fate tutti quanti il pane in casa? La domanda rimbalzava ieri dall’editoriale del supplemento che Libération dedica alla cucina, ogni venerdì. Titolo: “Tu mitonnes”, che vuol dire cucinare a fuoco lento. Evviva, finalmente ci siamo sentiti in sintonia con il mondo che sta là fuori. No, non impastiamo il pane in casa. Semplicemente, da giorni ci poniamo la stessa domanda. Da quando i diari della quarantena riferiscono la nuova occupazione, di solito illustrata con le mani in pasta (le prime volte la pagnotta viene su bruttina).

 

Magari vi siete messi a fare il pane in casa perché avete finito i libri da leggere (là fuori c’è gente convinta che i libri e il pane siano equiparabili, quanto a genere merceologico). Magari non vi fidate del panettiere e delle sue baguette (la domanda viene posta in terra di Francia, dove il filoncino viene afferrato e acrobaticamente passato con un quadratino di carta a protezione). Magari abitate lontani da una panetteria. Magari come tutti avete bisogno di fare cose, ma per esempio la preparazione degli gnocchi non riscuote altrettanto successo.

 

No, no e no. Il pane serve per ritrovare le radici, per riconnettersi con il proprio io profondo, per fare pace con un mondo che aveva innestato la velocità massima. Non è cucina, è meditazione. Non è chimica, è adorazione della pasta madre, o lievito naturale che sia (per distinguerlo dal lievito di birra, e la lezione di cucina finisce qui). Per intraprendere il viaggio interiore sono stati svuotati gli scaffali della farina. E noi a chiederci: ma dove son finiti tutti quelli che consideravano il glutine nemico numero uno dell’umanità (spariti, come i no vax)?.

 

Alza bandiera bianca anche Literary Hub, che dedica un articolo alle Sourdough library: sourdough è appunto la delicata pasta madre, da rinnovare di giorno in giorno se la smania panificatrice perdura. “Poltiglia”, come dice il magnate dei media Logan Roy nella serie “Succession”, quando il figlio scarsamente portato per gli affari gli regala un barattolo di lievito naturale (il patriarca ha avuto un ictus, ma non ha perso del tutto il senno). In Belgio, nel 2013 – quando tutti voi neanche pensavate alla panificazione – un certo Karl De Smedt ha cominciato a collezionare paste madri provenienti da tutto il mondo. Le conserva alla giusta temperatura, e di ognuna ha scritto l’origine, dopo averle dato un nome.

 

“Colleziona lieviti, ma ha un cuore da poeta”, scrive Literary Hub, a noi non sarebbe mai venuto in mente. Spiega al New York Times che “ogni pasta madre ha un cuore e una volontà, trattala bene e ne sarai ricompensato”. E qui davvero tutto rischia di superare il livello di guardia. Abbiamo rinunciato al tour virtuale nella biblioteca delle paste madri, e siamo tornati a leggere “Tu mitonnes”. Dopo il pane quotidiano c’era la lista dell’ultima cena a bordo del Titanic, 14 aprile 1912. Prima classe, si intende. Agnello, pollo del Maryland, prosciutto della Virginia. Cucinato e servito. Se deve essere catastrofe, risparmiateci il pane del dilettante.

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