Tip tap e buon umore

Mariarosa Mancuso

Se la prospettiva di uscirne migliori vi alletta, una cosa da fare ci sarebbe. Imparare ad apprezzare i musical

Ne usciremo migliori. Ecco, non è che ne sentissimo l’impellente bisogno. E già che siamo in tema: i delfini non dovrebbero stare al largo? Cosa vanno a fare in porto? E non si era detto di piantarla con le fake news sulla natura che si riprende i suoi spazi? Peggio degli animali con vezzi e comportamenti umani nei film di Walt Disney. A proposito, ma solo per spettatori robustissimi di cuore: su Disney+ c’è la versione “live action” di “Lilli e il vagabondo” (a noi manca il coraggio, resistiamo nella trincea dell’animazione).

 

Se proprio la prospettiva di uscirne migliori vi alletta, una cosa da fare ci sarebbe. Imparare ad apprezzare i musical, peggio del fumo negli occhi per molti spettatori che pure amano il cinema. Subito si alza il lamento: “Non sopporto quando smettono di parlare e all’improvviso si mettono a cantare”. Non bastasse, essendo l’Italia una repubblica fondata sul doppiaggio, smettono di chiacchierare in italiano e cominciano a cantare in inglese. Sarebbe ora di smetterla con i pregiudizi, la congiuntura è particolarmente indicata: poche cose come i musical (perlopiù americani, è un genere made in Usa anche più del western) mettono di buon umore. Se poi ballano il tip tap, è pura felicità.

 

Primo film per uscirne migliori, “Cantando sotto la pioggia” di Stanley Donen, con Gene Kelly e Debbie Reynolds (sì, la mamma di Carrie Fisher, alias principessa Leia, quando aveva 20 anni e cominciava la sua carriera nel cinema). Sciaguratamente – e non è la prima volta – non lo si trova sulle piattaforme a cui versiamo l’obolo mensile. Bisogna noleggiarlo su Google Play. E abbandonarsi al divertimento, culminante nella danza di Gene Kelly che fa ciac ciac nelle pozzanghere (nel 1945 aveva dato lezioni di ballo al topo Tom di Tom & Jerry, quando i disegni animati erano disegnati fotogramma per fotogramma con colori e china),

 

I pezzi singoli si trovano su YouTube, per assaggio. Ma il film è molto più di una collezione di grandiosi numeri musicali. O l’occasione per ammirare l’immensa bravura di Donald O’Connor. La trama si innesta sulla prima grande svolta dell’industria hollywoodiana, quando il cinema che era nato muto diventò sonoro, facendo strage di star. Prima, per molte belle fanciulle, recitare voleva dire appendersi alle tende, portar le mani al cuore, farsi rapire da un bel cavaliere, all’occasione svenire tra le sue braccia. Esattamente quel che fa – nel film “Il cavaliere spadaccino” – la smorfiosa Lina Lamont.

 

Irrompe il sonoro, nel 1927 con “Il cantante di jazz”. I film muti sono fuori mercato, purtroppo Lina Lamont ha una voce gracchiante. A nulla servono le lezioni di dizione (spassosissime, per protervia dell’allieva e necessità di mimetizzare gli allora giganteschi microfoni). Decidono di doppiarla, con la canterina Debbie Reynolds. In “Cantando sotto la pioggia” c’è parecchio altro, per la fortuna di chi ancora non l’ha visto. Chi ancora resiste sprecherà una quarantena. Non vedendo mai “Chicago”, e neanche Fred Astaire che balla con l’attaccapanni.

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