Foto Forno Brisa

Pane al pane

Sonia Ricci

Il lockdown ci ha trasformati in tanti piccoli fornai. Ma l'èra del pane (e della pizza) “fatti in casa” era già iniziata da tempo. Tra lieviti madre, grani evolutivi ed esperimenti con le farine  

Si segue la sua crescita a occhio nudo da un vetro offuscato dai riflessi di una luce sbiadita. Da neonato ad adulto in 40 minuti. Sale. Si è tentati di aprire lo sportello per vedere meglio ma anche le ricette più remote lo vietano finché non arriva il momento giusto. Quindi si desiste. Il percorso che porta fin lì è duro: inizia sempre dalle mani, collose, ingestibili. Si attacca tutto dappertutto. Con il rischio di pianti isterici. Poi con un po’ di esperienza si passa ai bracci meccanici. Il sale è il nemico principale, può rovinare tutto se non interviene nel momento giusto. Il timer suona tanto più spesso quanto è avanzata la tecnica che si raggiunge. 24 ore di lavoro. E poi lo scoglio dove si cade tantissime volte: il vapore in forno. Ci si inventa di tutto: spruzzino, pentolini con acqua, teglie con ghiaccio, vaporiera. La ricompensa finale è profumata. La “madre” ha lavorato bene. La crosta è una specie di Appennino.

 

È durissimo, dicevamo, questo percorso che porta a fare il pane in casa con tutti i crismi dell’arte bianca. Quante volte avete provato? E quante volte avete provato senza davvero riuscirci? Non si contano. Perché il pane è forse una delle cose più difficili da preparare a casa. Serve concentrazione, precisione, strumenti e tanta forza di volontà. Serve tempo, e mai come ora ne abbiamo avuto a disposizione. Sarà per questo che il lockdown ce lo ricorderemo anche per i chili di lievitati che abbiamo creato in cucina. Scaffali di farina dei grandi supermercati completamente vuoti. Il lievito di birra è diventato come il sale nel Medioevo. I social sono stati sommersi di panificatori e pizzaioli casalinghi e le loro foto; gruppi Facebook dedicati al lievito madre con guerre tra i migliori batteri; professionisti che hanno condiviso le loro tecniche e ricette. E giù lì a segnare nel block notes del telefono tutte le varianti per impastarlo e link di YouTube che mostrano le tecniche più diverse. Si sono unite due direttrici: una che riguarda una nuova èra del pane, iniziata più di 10 anni fa, segnalata dal passaggio dal pane comune della grande distribuzione alle piccole panetterie di sperimentatori che hanno fatto ricerca con diversi frumenti, lievitazioni (pasta madre e non), tempi prolungati, forme e cotture. Non sono i forni di una volta, ma sono i Blade runner della panificazione. E poi corsi per principianti che hanno creato una nuova cultura. Vale lo stesso per la pizza. Prodotti sicuramente più costosi, perché frutto di un lavoro più lungo e metodico, e di farine più ricercate. La seconda direttrice è il tempo per sé, per la casa e per la propria famiglia. Un tempo che non ci ridarà più nessuno, passato in cucina, per ore. Perché altro non c'è da fare.

 

“Le parole ‘pane’ e ‘padre’ hanno la stessa radice linguistica. E che cosa fa il padre se non prendersi cura di chi abita la casa?”, spiega Davide Longoni, panificatore che negli anni con la sua bottega omonima di Milano ha insegnato la scienza del pane oltre a produrlo. Nel fare il pane c’è sì un gesto utilitaristico legato al nutrire la famiglia, ma riporta anche a una dimensione ancestrale del vivere. La percezione dei profumi e una gestione del tempo diversa dall’ordinario. Lo ha riassunto Mariarosa Mancuso in un bel pezzo su queste colonne: il pane “non è cucina, è meditazione”.

 

Tanto è cambiato in questi ultimi anni. Molti giovani panettieri (e loro seguaci) hanno dato una spallata all’idea del pane ibrido del supermercato. Il giorno dopo duro come un sasso. Che sì profuma, ma solo di lievito di birra. L’aroma e la durata sono stati messi da parte per far posto all’economicità e alla quantità del prodotto. Farine sempre più denutrite per renderle giù maneggevoli. Qualche settimana fa Salvatore Ceccarelli, già professore di genetica agraria all’università di Perugia, girando in un supermercato ha trovato un grosso contenitore in metallo con i prodotti in scadenza scontati. Ci ha trovato del pane fatto il giorno prima. “Una implicita ammissione - spiega - che quel pane in giro di 24 ore ha perso il 50% del proprio valore”. Pier Paolo Pasolini scriveva: “Io tempo ormai ne ho poco. Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano, che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace”. Era il 1961 quando lo scrisse nel “La religione del mio tempo”. I motivi erano altri. Ma parafrasando al presente si può dire che oggi, che di tempo ne abbiamo in avanzo, a essere disperso nel mare magnum della grande distruzione è il pane di qualità. Ma è sempre così? Niente affatto. Pani artigianali dalle lunghe lievitazioni possono durare anche una settimana, basta rigenerare le fette con un po’ di calore.

  


 

Lievito madre (foto Forno Brisa)  


 

Poi c’è l’enorme capitolo della farina. Nelle ultime due settimane di marzo se ne è venduta il 200% in più, ci racconta l'ufficio studi Coop. Si è trasformata negli ultimi cento anni con un graduale cambiamento genetico sia del frumento duro che tenero. Ci si è preoccupati dell’esigenza delle industrie senza capire che conseguenze avrebbe potuto avere sui consumatori. Nei grandi pastifici e forni gli impasti vengono sottoposti a sollecitazioni meccaniche fortissime. E dunque il glutine è stato modificato per poter resistere alle impastatrici. La forza delle farine viene indicata con un numero e la W. Quelle del supermercato arrivano a 300-400 W, ovvero di gran forza. I vecchi frumenti a 120-130 W. Nascono così intolleranze e nuovi celiaci. Secondo i dati del ministero della Salute del 2017, i casi diagnosticati fino a quel momento erano 206.561, con un aumento medio di 10 mila diagnosi all'anno. Con un costo per la Pubblica amministrazione relativo agli alimenti distribuiti di quasi 250 milioni di euro. Numeri più che significativi.

 

E poi c’è il sudoku delle tipologie di farina: tipo 00, 0, 1, 2, integrale. Per capire: le proprietà nutritive del frumento sono all’esterno della cariosside (il chicco di grano), più si lavora e meno caratteristiche nutritive rimangono nella farina. Quella integrale è sicuramente la più completa. Si arriva di macina in macina alla più comune 00, in cui vengono eliminati crusca e germe, ricchi di fibre, vitamine e amminoacidi. Tutto questo per renderla più bianca e più facilmente lavorabile. Al tatto sembra quasi un talco.

 

Il futuro dell’agricoltura si chiama grano evolutivo. E se oggi possiamo parlarne lo dobbiamo proprio al professor Ceccarelli, che lo ha introdotto in Italia qualche anno fa. “È una mescolanza di tante varietà diverse della stessa specie”, spiega. I miscugli sono in grado di evolversi nel tempo e dunque “riescono ad adattarsi meglio ai cambiamenti climatici” e “la farina che se ne ricava ha più tipi di glutine all’interno, con minore quantità di quello che crea intolleranze”, riducendo così il rischio malattie. Tutto è partito da Aleppo in Siria nel 2008. Ceccarelli ha mescolato un migliaio di tipi di semi di orzo, poi di grano duro e tenero. I raccolti sono stati abbondanti. Li ha portati in Giordania, Iran e Siria. E con il tempo, di contadino in contadino, hanno fatto il giro del Medio Oriente e nel 2010 sono arrivati in Italia. Sicilia, Marche, Molise e Sicilia sono state le regioni apripista. Il futuro, probabilmente, passerà anche attraverso questi nuovi grani.

 

Buona parte della new wave della panificazione è figlia dell’home baking della West Coast statunitense (famoso è il pane di San Francisco), che porta con se l’uso del lievito madre in casa e della panificazione non tradizionale. E la storia del Forno Brisa lo conferma. Pasquale Polito, socio del panificio insieme a Davide Sarti, era un panificatore casalingo che tra una lievitazione e l’altra spacciava pagnotte nel proprio quartiere. Da geografo ha deciso di convertirsi alla panificazione e insieme a Davide rivoluzionare il pane a Bologna. Oggi contano tre punti vendita e una loro filiera abruzzese di grano. Quella del pane casalingo in un certo modo “è una tendenza che rimane di nicchia”, confessa Nike Baragli di Brisa. C’è maggiore consapevolezza ma la diffusione rimane ancora limitata. In ogni caso rappresenta un passo avanti. Con il lockdown Brisa, come altri forni, panifici e pizzerie, ha deciso di regalare lievito madre alle famiglie costrette a casa, “con un riscontro più che positivo, ci sono arrivate tante richieste”, spiega. “Segno che c’era un esigenza in città a cui abbiamo inconsapevolmente risposto”. E le ricette? “In pochi giorni siamo diventati un telefono amico per chi ha iniziato a produrre pane a casa durante la quarantena, in tanti ci hanno chiesto una mano per riparare ai difetti e le tecniche da utilizzare”.

 


Una maglietta realizzata da forno Brisa di Bologna  


 

Walter Musco della pasticceria Bompiani a Roma, ex gallerista e gran viaggiatore, ha messo in vendita un kit lievito per pane e pizza (che contiene lievito madre duro e un mix di farine in base ai gusti e alle preparazioni). “Ho pensato a questo pacchetto per aiutare chi sta producendo lievitati a casa”, spiega al Foglio. Non solo pane e pizza, però, perché il lievito madre a pasta dura che distribuisce è utile anche per altre preparazioni, “come le brioche, le colombe e i panettoni”. Il procedimento è difficile “ma diamo sempre consigli a chi vuole provarci”.

  


Il kit realizzato da Walter Musco della pasticceria Bompiani a Roma 


 

Come il pane è cambiata anche la pizza. “È un prodotto che è migliorato tantissimo”, spiega Ciro Salvo di 50 Kalò, una delle pizzerie napoletane più all’avanguardia. “Fino a qualche anno fa era più facile trovare una tonda cattiva piuttosto che una buona. Ora è il contrario”. E dalle pizzerie di qualità a casa il passo è stato breve. Anche grazie agli stessi pizzaioli della nuova generazione che si sono aperti e hanno spiegato tecniche, impasti, farine e lievitazioni. Così in tanti hanno sperimentato.

 


Ciro Salvo di 50 Kalò 


  

È la cucina professionale in generale ad essersi evoluta e il cambio di paradigma ha trascinato con sé anche molti amatori, che imitano a casa prodotti che trovano nei forni, pizzerie e pasticcerie. Rimangono alla mente le preparazioni delle mamme e l’odore della torta della nonna. Con tutti i loro errori e imperfezioni. Quella memoria gastronomica è la base dalla quale si è partiti per produrre in proprio con nuove tecniche e più consapevolezza. Si sono diffuse altre farine, grani antichi, come quelle del Mulino Sobrino e del Molino Rosso, per citane due. “Altri grani, altri pani”, è il titolo del bel libro di Laura Lazzaroni che per scriverlo ha girato mezza Italia raccontando tradizioni, evoluzione del settore e frumenti tornati sugli scaffali. Il risultato è una nuova era del pane. In laboratorio ma anche a casa, dove un pizzico di follia domestica ha portato qualità tra i fornelli. E si spera che venga tramandata di generazione in generazione proprio come hanno fatto le nonne.

 

Perché questa esplosione di pane e pizza fatti tra le quattro mura di casa e non altri prodotti? Il grano ha un significato unanime e ancestrale nella storia dell’uomo, base di storie e di culture. In Games of Thrones è l’alimento più citato: non è cibo, è politica. Quando Approdo del re è circondata dai nemici, gli odiati Lannister stringono un patto con i Tyrrel. Per gli eserciti, ovviamente, ma per il grano, soprattutto, vera forza di una famiglia che dopotutto regna su Alto giardino, e come non poteva essere altrimenti.

“Sicuramente il pane è un alimento anche tipico, è il fondamento della civiltà - dice Longoni riportandoci dal fantasy alla realtà - Omero chiamava gli uomini mangiatori di pane. Non c’è in natura il pane, non c’è sulle piante. È una faccenda più complessa”.

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