Serie in quarantena

Mariarosa Mancuso

Evita questo, scarta quest’altro, alla fine qualcosa senza controindicazioni si trova sempre

Le serie ai tempi della quarantena. Piene di controindicazioni mai notate prima. Dottori in quantità. Una certa insistenza sull’after life (detta così, come nel titolo scelto per la sua serie da Ricky Gervais, fa meno impressione). Poi ci sono le distopie. Le fosche profezie tecnologiche. Il due per cento della popolazione mondiale che misteriosamente scompare. Gli zombie – o “Walking Dead” – avevamo già smesso di vederli da un po’.

 

Soprattutto e dappertutto, gente che si accalca, che sta appiccicata, che si affolla, che – orrore! – si struscia. Da mettersi a urlare. Come nella sceneggiata napoletana, quando gli spettatori avvertivano il buono che il cattivo stava arrivando (così vuole la leggenda): “Ma cosa vi salta in mente? Tenete le distanze, sciagurati!”.

 

Il New York Times impagina l’articolo sul “social distancing” lasciando ampi cerchi bianchi attorno a figurette umane disegnate. Il sito Lit Hub riscrive le prime righe di romanzi famosi tenendo conto della distanza di sicurezza. Marcel Proust potrebbe suonare così: “Per molto tempo sono andato a letto presto. Non ero neanche stanco. Era più un modo di far passare il tempo”. Jane Austen potrebbe scrivere, abbassando un po’ il tono: “E’ cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba fare incetta di carta igienica”.

 

Francis Scott Fitzgerald potrebbe aggiornare così i privilegi del “Grande Gatsby”: “Quando hai voglia di uscire, ricorda che esistono al mondo persone con un sistema immunitario meno fortunato del tuo”. L’abbiamo un po’ modificata, in origine diceva “quando hai voglia di andare al ristorante” (le restrizioni rapidamente si modificano). Discutibile il nuovo inizio proposto per “Moby Dick” di Herman Melville (il romanzo dove il capitano Achab tenta di accorciare la distanza sociale con la balena). “FaceTime me, Ishmael”, scrive Lit Hub, come se fosse questione di chiamarsi al telefono.

 

Evita questo, scarta quest’altro, alla fine una serie senza controindicazioni si trova. E’ su Netflix con il titolo “Chiami il mio agente!” (ma come tutte le cose migliori di Netflix è prodotta e ideata altrove, da France 2). Gli agenti lavorano nello spettacolo, curano i contratti e gli ingaggi degli attori. Badando – per esempio – a che il regista non pretenda scene di nudo non previste dal copione. Gli attori sono capricciosi – vale per i maschi come per le femmine – e gli agenti devono placare gli animi, consolare le paturnie, garantire che i primi piani non verranno tagliati al montaggio.

 

Per raddoppiare il divertimento, gli attori francesi stanno al gioco. Uno per episodio, tutti in una versione peggiore di loro stessi. La stacanovista Isabelle Huppert, per esempio, gira due film insieme. E un terzo, muto, ospitando in casa un regista coreano (troppo lavoro, e la voce se ne va). Stavano girando la quarta e ultima stagione, il finale era previsto durante i premi César. Proprio l’edizione finita in rissa per via di Roman Polanski. Anche gli sceneggiatori bravissimi vengono scavalcati dalla realtà.

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