L'opera d' arte di Maurizio Cattelan " Il Dito Medio " in Piazza Affari

Non solo l'economia. L'Italia populista è già spazzatura

Claudio Cerasa

Non c’è bisogno di aspettare Fitch per capire se l’economia italiana sia stata messa a rischio dal qualunquismo sovranista. La risposta è sì e ci sono almeno dieci ragioni per non lasciare l’opposizione allo spread e alle agenzie di rating

Non è necessario aspettare di sapere cosa dirà oggi una delle agenzie di rating più famose del mondo sulla sostenibilità del nostro debito pubblico per provare a rispondere con esattezza a una domanda chiave che riguarda il futuro dell’Italia e della sua economia. La domanda naturalmente è questa: ma l’approccio scelto dal populismo sovranista per guidare la settima potenza industriale del mondo incoraggia oppure scoraggia chi ogni giorno deve scegliere se investire o no quattrini nel nostro paese?

   

Questa mattina, come sapete, Fitch deciderà se declassare o no l’Italia e se portare l’affidabilità dei nostri titoli di stato a un solo livello di distanza dalla quota spazzatura, che una volta raggiunta comporta l’interruzione automatica dell’acquisto di obbligazioni da parte della Bce e la non possibilità per la Banca centrale europea di accettare obbligazioni italiane come garanzia collaterale, il che significherebbe che i circa 200 miliardi di euro di debito italiano collocati dalle banche italiane a titolo di garanzia, qualora fossimo declassati a spazzatura da tutte le quattro più importanti agenzie di rating, dovrebbero essere ritirati e presumibilmente trasferiti in Banca d’Italia utilizzando il meccanismo dell’Emergency Liquidity Assistance.

 

E’ possibile che Fitch decida di non declassare l’Italia e di rinviare il suo giudizio definitivo sul futuro del paese alla fine di settembre, quando sarà chiaro l’indirizzo che il governo darà alla sua legge di Stabilità. Ma al di là di quello che sarà il giudizio delle agenzie di rating sul nostro paese è possibile riconoscere già oggi che l’approccio scelto dal governo Salvini-Di Maio per governare la nostra economia ha già messo in circolo una quantità di elementi che difficilmente possono essere classificati in una categoria diversa rispetto a quella della spazzatura.

 

La ragione per cui negli ultimi tre mesi in Italia sono peggiorati i rendimenti dei titoli di stato (i Btp con scadenza a cinque anni ieri sono stati collocati a un tasso medio del 2,44 per cento in rialzo di 63 punti base rispetto all’asta di fine luglio e ai massimi dal dicembre 2013); la ragione per cui negli ultimi tre mesi sono crollati gli indici della Borsa (prima dell’arrivo del governo del cambiamento, la Borsa rispetto all’inizio dell’anno guadagnava l’11,18 per cento, dalla nascita del governo a oggi ha perso il 14,94 per cento); la ragione per cui negli ultimi tre mesi sono aumentati i differenziali dei rendimenti tra i nostri titoli e quelli tedeschi (variazione dei rendimenti dei titoli decennali negli ultimi tre mesi calcolata in punti base: Germania più 2,7 per cento, Spagna meno 8,8 per cento, Portogallo meno 17,9 per cento, Grecia meno 21,9 per cento, Italia più 53,9 per cento); la ragione per cui nei primi mesi di governo gli investitori stranieri hanno scelto di disinvestire dal debito pubblico italiano (Banca d’Italia ha certificato un aumento delle vendite di titoli di stato per complessivi 56,5 miliardi di euro tra maggio e giugno) non va ricercata provando a mettere insieme i puntini di un famigerato complotto internazionale, bensì mettendo insieme i puntini di una lucida follia populista che da maggio a oggi ha fatto aumentare esponenzialmente il così detto rischio Italia.

  

L’Italia è un paese dove investire è molto più rischioso rispetto a ieri non per questioni legate ai fondamentali dell’economia ma per questioni legate squisitamente all’approccio scelto dalla politica per governare l’economia.

        

E per quanto Giovanni Tria provi ogni giorno a rassicurare gli investitori sul fatto che il programma di governo da default immediato e da Trattamento sanitario obbligatorio sottoscritto quattro mesi fa da Salvini e Di Maio sia sostanzialmente carta straccia, il ministro dell’Economia sa perfettamente che un governo viene valutato non solo per quello che fa ma anche per quello che dice. E quando ciò che si dice riguarda la traiettoria che un governo intende dare alla sua economia le parole per un investitore valgono almeno quanto i fatti.

    

Problema numero uno: può essere considerato affidabile un paese il cui governo senza aver fatto nulla ha già provocato un aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato pari a quattro miliardi di euro?

   

Problema numero due: può essere considerato affidabile un paese il cui governo è considerato credibile dagli investitori solo nella misura in cui quel governo non rispetta il suo programma di governo?

   

Problema numero tre: può essere considerato affidabile un paese il cui governo lascia intendere periodicamente non di aver annullato ma di aver solo sospeso la sua battaglia contro l’euro?

 

 

Problema numero quattro: può essere considerato affidabile un paese il cui governo considera i mercati non degli alleati per garantire la crescita del proprio paese ma dei potenziali nemici capaci di ordire pericolosi complotti?

 

Problema numero cinque: può essere considerato affidabile un paese il cui governo trasforma ogni occasione di instabilità, un ponte che cade, una compagnia di bandiera in difficoltà, un’acciaieria da riorganizzare, in una buona occasione per applicare all’economia il modello delle nazionalizzazioni in stile Maduro

     

Problema numero sei: può essere considerato affidabile un governo che per risolvere il dramma dell’eccessiva durata dei processi da un lato dice di voler aumentare i tempi della prescrizione e dall’altro lato squalifica i magistrati sostenendo che un governo con la testa sulle spalle non può permettersi di aspettare i tempi della giustizia?

 

Problema numero sette: può essere considerato affidabile un governo che per tutelare l’interesse nazionale flirta ogni giorno con leader di paesi i cui interessi nazionali sono incompatibili con quelli del nostro paese?

 

Problema numero otto: può essere considerato affidabile un governo che non capisce che combattere la flessibilità non significa combattere la disoccupazione ma significa combattere l’occupazione?

 

Problema numero nove: può essere considerato affidabile un paese il cui governo considera poco importante il fatto che il 25 per cento dei gestori di fondi europei dichiari (report mensile di BofA Merrill Lynch) di voler ridurre la propria esposizione in Italia?

  

E infine: può essere considerato affidabile un paese il cui governo lavora esplicitamente per far saltare prima ancora dell’Unione monetaria l’Unione europea (il “no” ricevuto da Salvini e da Conte sulle relocation dei migranti in Ungheria e in Repubblica ceca non è un “no” che guasta i piani del governo, ma è un “no” che al contrario rafforza il vero piano del governo, che è sintetizzabile in tre parole semplici: sfasciare l’Europa)?

 

Sulla base di ciò che verrà fatto nella prossima legge di Stabilità – in vista della quale Salvini e Di Maio si stanno già esercitando a dire che la responsabilità di ciò che non verrà fatto sarà tutta colpa dell’Europa – capiremo se il ministro dell’Economia riuscirà a trovare o no un punto di caduta non irresponsabile per costruire un compromesso presentabile tra gli irrazionali e pericolosi sogni populisti e la realtà e le necessità del nostro paese. Ma nel momento in cui un paese diventa credibile e sostenibile solo a condizione che chi si trova al governo non mantenga le sue promesse non c’è bisogno di aspettare il giudizio di Fitch oggi e di Moody’s domani per capire se la crisi di credibilità e di affidabilità prodotta dal governo populista ha portato più o meno spazzatura politica in Italia.

 

Noi una risposta ce l’abbiamo, e probabilmente anche voi, e sarebbe uno scandalo se l’unica opposizione credibile a un governo non credibile fosse quella rappresentata da un indice dello spread o da un agenzia di rating. Anche no, grazie.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.