Foto LaPresse

Euro o Neuro

Stefano Cingolani

Il tabù è ormai rotto. Lo scontro sull’euro non è finito, è solo rinviato e il compromesso di governo non scongiura la tempesta. Come resistere alle sciocchezze sovraniste e perché una crisi di fiducia sulla moneta unica può travolgere l’Italia. Una contro inchiesta

Il tabù è rotto, l’euro non è più irreversibile, cade il dogma enunciato da Mario Draghi, e a farlo crollare è proprio l’Italia? Il vaudeville gialloverde si conclude con un compromesso che non scongiura la tempesta imperfetta. Sì, imperfetta, soprattutto perché auto-inflitta. Forse aveva ragione Gilles Li Muisis, abate di Tournai, il quale già sei secoli fa lamentava che “in fatto di monete le cose sono molto oscure; esse crescono e diminuiscono di valore e quando si pensa di guadagnare si trova il contrario”. I mercati, volendo abbandonare una visione metafisica, non stanno né a destra né a sinistra, sono composti da milioni e milioni di soggetti i quali s’incontrano per formare un prezzo, quindi soppesano i fatti e contano i numeri. Dopo il 4 marzo hanno atteso. In fondo l’Italia cresce, troppo poco, ma va avanti; il debito è alto però resta sostenibile; le banche sono state messe al sicuro, anche se in modo maldestro. E’ vero, hanno vinto due forze populiste, tuttavia è improbabile che una volta preso il comando della nave si comportino come il comandante Schettino e la schiantino sugli scogli. Finché non appare all’orizzonte quello che Ugo Loser, amministratore delegato di Arca Fondi, chiama “un nuovo paradigma”, che sarebbe poi un paradigma sudamericano. La svolta, insomma, avviene quando salta fuori il piano B per l’uscita dall’euro e Paolo Savona, proposto dalla Lega come ministro dell’Economia grazie alle sue posizioni euroscettiche, diventa la linea del Piave per Matteo Salvini. A questo punto, la percezione collettiva, a Milano come a Londra, a Francoforte come a Wall Street, muta: l’Italia può davvero uscire dall’euro o per propria scelta o perché costretta dagli eventi o perché spinta fuori dai paesi che la considerano una minaccia alla stabilità.

 

Con il neo ministro Giovanni Tria, scettico sul reddito di cittadinanza, affascinato dalla flat tax, il governo è al “Ni euro”

Nel nuovo governo, Savona è stato spostato agli Affari europei mentre all’Economia va Giovanni Tria, uno stimato professore, un realista, un uomo equilibrato. Alla domanda No euro, Tria sostiene che “è sbagliato rispondere sì, ma non basta rispondere no”. Insomma, siamo al “Ni euro” – è il commento di molti analisti. In ogni caso, per lui si può uscire dalla moneta unica solo che farlo da soli “costa troppo”. Scettico sul reddito di cittadinanza (semmai si tratta di ampliare l’indennità di disoccupazione), è affascinato dalla flat tax. Se il ministro farà quel che ha detto il professore, non verranno rispettate le clausole europee di salvaguardia imposte per chi sfora i vincoli europei, un primo messaggio a Bruxelles. In sostanza verrà usato l’aumento delle imposte indirette per finanziare una versione morbida della riforma fiscale. Con tre punti interrogativi. Primo, l’aumento dell’Iva dovrebbe servire a rispettare i limiti di bilancio, usarlo per la flat tax significa sfondare il tetto del 3 per cento nel rapporto tra deficit pubblico e pil? Secondo: si tratta di uno scambio tra costo immediato e benefici futuri, perché il rincaro scatta dal primo gennaio e il nuovo regime fiscale andrà in vigore con la dichiarazione dei redditi del giugno 2020. Chissà quanto sarà contento il popolo delle partite Iva che vota per Matteo Salvini. Terzo, più tasse sui consumi vuol dire più inflazione e meno crescita (anche se di qualche decimale) e questa non è una bella partenza.

 

La Borsa di Milano venerdì ha salutato con un buon rialzo la fine dell’incertezza. Alcuni grandi fondi d’investimento che avevano già assaggiato un amaro antipasto sperano di rifarsi. E’ il caso del Janus Henderson di Bill Gross, uno dei maggiori operatori in titoli pubblici. Grandi banche e compagnie di assicurazione in Italia e all’estero trattengono il fiato. Le Generali hanno appena incassato un positivo giudizio da parte di Moody’s che le considera in grado di assorbire gli stress italiani anche se hanno 65 miliardi di titoli di stato, grazie a un piano industriale che ha consolidato il patrimonio e diversificato le attività. Chi non s’è raddrizzato in tempo adesso incrocia le dita. “Dramma italiano”, hanno intitolato la loro nota gli analisti di Nomura. Secondo loro, la differenza negativa rispetto al 2011-2012 è che la situazione politica è peggiore, non solo in Italia, ma anche in Germania. Certe dichiarazioni gialloverdi sulla nazionalizzazione del Monte dei Paschi di Siena assumono adesso un contorno più chiaro: l’uscita dall’euro porta con sé il default del debito sovrano, il quale provoca la corsa agli sportelli e il collasso del sistema creditizio. L’intervento dello stato in tal caso diventa una strada obbligata. Ma attenzione, per riempire i bancomat occorre chiedere aiuto e a quel punto l’unica ancora sarebbe a Washington, al Fondo monetario internazionale.

 

L’uscita dall’euro porta con sé il default del debito sovrano, poi la corsa agli sportelli e il collasso del sistema creditizio

Accadde già nel 1976. Allora alla Banca d’Italia c’era Paolo Baffi, al governo Giulio Andreotti sostenuto dall’esterno addirittura dal Partito comunista di Enrico Berlinguer, la lira era sovrana come poteva esserlo una moneta debole, i prezzi del petrolio salivano alle stelle ma la scala mobile difendeva dall’inflazione rilanciandola come una pallina da ping pong. Non esistevano i derivati della turbofinanza, i movimenti dei capitali erano controllati, il governo poteva attingere a un conto corrente presso la Banca centrale nazionale, un vincolo di portafoglio costringeva le banche a comprare i buoni del tesoro, insomma, c’erano tutte le condizioni oggi ambite dai sovranisti. 

 

Ebbene, in pochi giorni le riserve vennero fatte fuori dalla speculazione e si decise di chiudere il mercato dei cambi, la lira in sostanza divenne una moneta nazionale che non poteva circolare all’estero. Il Fmi impose condizioni durissime e Berlinguer faticò a farle ingoiare alla Cgil sotto il manto ideologico dell’austerità come “occasione per cambiare il modello di sviluppo”. Oggi la storia di può ripetere, non come farsa, al contrario di quel pensava Karl Marx (rivalutato persino dai corifei della borghesia), bensì come catastrofe sociale, economica, politica.

 

“L’appartenenza all’euro è un vero discrimine per il futuro del paese. Si sta di qua o di là”, spiega al Foglio Corrado Passera, banchiere, manager, ministro dell’Industria nel governo guidato da Mario Monti. A differenza dalla crisi del 2011-2012, l’economia è più forte, il debito resta alto ma tutto sommato consolidato, in più c’è il sostegno della Bce con il quantitative easing. Anche per questo, uscire dall’euro diventa una scelta masochistica, dettata soltanto da motivazioni di schieramento politico e ideologico. Occorre invece spiegare con chiarezza tutti i vantaggi che la moneta unica porta con sé. C’è una dimensione geopolitica che spesso viene trascurata: il mondo sarà sempre più dominato da poche grandissime potenze le quali sono tali anche perché posseggono monete solide delle quali tutti si fidano – sottolinea Passera – e oggi l’euro è una di queste. L’Europa nel suo insieme deve decidere se essere protagonista o terra di conquista e nessuno può garantire la sua sovranità, né la Francia né la stessa Germania, figuriamoci l’Italia. Oggi ci sono fondi e banche d’affari che gestiscono patrimoni più grandi del nostro prodotto nazionale lordo, la piccola lira sarebbe nelle mani della speculazione, mentre l’euro ha dimostrato molta solidità.

 

“L’appartenenza all’euro è un vero discrimine per il futuro del paese. Si sta di qua o di là”, dice Corrado Passera

Passando dai macro sistemi alla vita quotidiana, non si può ignorare che mai nella storia italiana famiglie, imprese, individui hanno potuto finanziarsi per comprare una casa, un’auto o per investire in un’attività economica, a costi così bassi, con tassi che talvolta s’avvicinano a zero, e ciò vale anche per lo stato che vedrebbe il costo del suo debito esplodere in caso di passaggio alla lira. Questo vantaggio sparirebbe in un attimo. La svalutazione della moneta dà un aiuto immediato alle esportazioni, ma nello stesso tempo fa rincarare le importazioni (e l’Italia paese trasformatore privo di materie prime deve acquistare all’estero anche semilavorati), dunque l’effetto diventa effimero. Comunque nessuno dica che l’euro impedisce le esportazioni italiane visto che raggiungiamo nuovi massimi anno dopo anno. Nel frattempo parte forte l’inflazione, che è la più ingiusta delle tasse perché colpisce i lavoratori a reddito fisso, i pensionati, i piccoli risparmiatori. “Si tratterebbe di una vera e propria patrimoniale nascosta, bisogna dirlo con onestà alla gente”. I nostri mali più profondi, del resto, non dipendono dall’euro. Che cos’hanno a che fare con la moneta europea la burocrazia, il sistema giudiziario, la corruzione, l’arretratezza e la cattiva organizzazione dei servizi?

 

Burocrazia, sistema giudiziario, corruzione, arretratezza e cattiva organizzazione dei servizi: i nostri mali più profondi non dipendono dalla moneta europea

 

Giampaolo Galli, economista di scuola Bankitalia, con laurea alla Bocconi e PhD a Harvard, direttore generale della Confindustria, poi deputato del Pd, ha pubblicato una tabella da brivido. Dal 1995 a oggi il prodotto lordo pro capite italiano è salito da quota 100 a 105, quello greco a 116, quello giapponese a 120, quello tedesco a 132, quanto alla Spagna sta maturando il sorpasso anche in quantità a partire dal 2020 secondo le stime del Fondo monetario internazionale. Non solo: senza l’Italia, l’area euro sarebbe cresciuta tanto quanto gli Stati Uniti. Un esercizio statistico non proprio scientifico, ma eloquente. Prima di voler curare l’Europa, dunque, dobbiamo curare noi stessi. Certo, la governance europea va riformata, ma innanzitutto impegniamoci a migliorare l’Europa invece di suicidarci, insiste Passera. “La sovranità appartiene al popolo fin quando l’incapacità di chi governa non la cede ai mercati finanziari o alle istituzioni internazionali”, non smette di sottolineare Lorenzo Bini Smaghi, già membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea e da poco rieletto presidente della Société Générale, una delle principali banche francesi ed europee: “Un paese perde la propria sovranità quando perde la fiducia dei risparmiatori”.

 

E’ bene ricordare che l’euro nacque proprio da una crisi di fiducia che travolse l’intero sistema finanziario europeo, la sterlina, la lira italiana e il franco francese, tutte valute legate l’una all’altra da un accordo di cambio chiamato Sme (Sistema monetario europeo). Diede fuoco alle polveri il referendum danese che disse no al Trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio 1992. Seguì una sequenza di colpi di scena, di attacchi speculativi e inutili resistenze nazionali. A settembre l’Italia uscì dallo Sme. Nella primavera del 1993 la Banca di Francia chiese alla Bundesbank un sostegno “senza limiti” al franco. Hans Tietmeyer, il cattolicissimo governatore della Buba rispose: “Illimitato è solo Dio”. Fu Helmut Kohl a frenare gli ardori del suo banchiere centrale che stava per mandare a monte il trattato. Maastricht era stato preparato da anni di discussioni nella commissione presieduta da Jacques Delors e istituita nel 1985 all’indomani di una crisi valutaria che venne risolta momentaneamente con un accordo tra le grandi potenze economiche occidentali nell’hotel Plaza di New York, in base al quale un dollaro schizzato troppo in alto veniva svalutato progressivamente evitando sconquassi. Funzionò per due anni, poi nel 1987 scoppiò una tempesta a Wall Street e gli europei si convinsero che le loro monete, anche il solido marco, erano fuscelli al vento di fronte al dollaro, con il quale operava l’intera economia mondiale.

 

Mai nella storia italiana famiglie, imprese, individui hanno potuto finanziarsi per comprare una casa, un’auto o per investire in un’attività economica, a costi così bassi

Abbiamo fatto due passi indietro, perché troppo spesso manca la memoria: rammentare come nacque l’azzardo di una valuta europea priva di un governo politico, una “moneta senza sovrano”, è fondamentale anche per decidere con chiarezza se val la pena o no di restarci. Nel corso dell’ultimo anno quella che sembrava una mera pulsione euroscettica cavalcata dai populisti è diventata progetto politico che ha attirato anche economisti di valore. Le loro posizioni sono state rilanciate da giornali come il Corriere della Sera, un tempo casa naturale di Mario Monti, di Tommaso Padoa-Schioppa e degli europeisti più ortodossi. Bini Smaghi quattro anni fa ha pubblicato per il Mulino un libro per smentire 33 falsità sull’euro. Citiamo solo alcune delle più diffuse: la moneta unica ha tolto sovranità, fuori dall’euro si cresce di più, sono stati favoriti i paesi del nord Europa, è stata imposta una riduzione dei salari, ha strangolato i paesi più deboli con l’austerità, i prezzi sono schizzati in alto, la ricchezza s’è dimezzata, la Bce pensa solo all’inflazione, la Germania mercantilista ci ha messo in ginocchio schiacciando le nostre esportazioni e via via mistificando. Da allora a oggi queste bugie sono diventate senso comune. Difendere l’adesione alla moneta unica, dunque, sembra un lavorio di Sisifo; non bastano certo invettive o argomenti pregiudiziali, bisogna entrare nel merito.

 

Falsità da smontare sull’euro. Non è vero che l’inflazione è raddoppiata. La ricchezza immobiliare
e finanziaria delle famiglie non è stata falcidiata dalla moneta unica. Non si può organizzare un’uscita con un default concordato del debito. I nodi della competitività, dello stampare banconote, della svalutazione

 

Cominciamo dall’inizio. Non è vero che l’inflazione è raddoppiata. La media dal 1999 è dell’1,7 per cento, tra il 1985 quando finì la fase dell’iper-inflazione cominciata negli anni 70 e il 1998 i prezzi sono cresciuti del 5 per cento. Dunque, il costo della vita nel suo insieme s’è ridotto. Tuttavia alcune categorie hanno aumentato i prezzi molto più della media (per esempio i servizi bancari cresciuti addirittura del 25 per cento o la tazzina di caffè diventata il totem degli anti euro), mentre altri beni e servizi sono scesi rapidamente (si pensi alle apparecchiature elettroniche). 

 

Le cause vanno cercate in manovre speculative che nel commercio ci sono state, ma anche in fenomeni di carattere più strutturale.

 

La ricchezza immobiliare e finanziaria delle famiglie italiane è stata falcidiata dall’euro? Le indagini della Banca d’Italia dicono il contrario. La lunga recessione s’è fatta sentire, per il taglio ai risparmi e perché si sono ridotti i valori di case e terreni, ma la ripresa degli ultimi anni sta lentamente riequilibrando la situazione. Un discorso analogo si può fare sulla diseguaglianza: è stata la recessione ad ampliarne i margini. Restano intatti squilibri inaccettabili nella distribuzione dei redditi. E ad aumentare la forbice c’è l’alto livello di disoccupazione. Ma ancora una volta il problema l’abbiamo in casa, non fuori dalle frontiere.

 

Per molto tempo gli italiani sono stati i cinesi d’Europa, concentrandosi in produzioni a basso valore aggiunto che non possono certo competere con i costi dei paesi in via di sviluppo. Con la globalizzazione e l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, l’Italia doveva spostare in alto il suo modello produttivo, ma lo ha fatto solo in parte e con grande ritardo. Per spiegarlo, Loser ricorre all’esempio delle motociclette, quasi una parabola. La Bmw vende molto più della Guzzi anche se costa tre volte tanto. Perché oltre al prezzo conta la qualità. La Volkswagen dopo aver acquisito un’azienda come la Ducati non ha spostato la produzione in Asia per risparmiare sui costi, ma l’ha lasciata a Bologna, e adesso produce moto, costruite in Italia con manodopera e tecnologia italiana, in grado di competere. E’ un modello produttivo virtuoso non penalizzato dall’euro, al contrario una moneta stabile e solida lo avvantaggia. Non tutti ce l’hanno fatta è vero, però le esportazioni italiane corrono a ritmi elevatissimi, lo ha sottolineato anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali. Ciò ridimensiona una delle accuse più frequenti al mercantilismo tedesco: un attivo eccessivo della bilancia commerciale avrebbe penalizzato l’industria italiana, ma così non è stato; anzi, crescono sia le esportazioni italiane in Germania sia, e ancor più, quelle fuori dall’area euro, in Asia e nelle Americhe. L’Italia ha oggi un surplus commerciale in rapporto al pil secondo solo alla Germania tra i grandi paesi europei e doppio di quello cinese. Per comprendere perché, nonostante tutto, il Bel paese è rimasto ancora indietro, bisogna puntare il dito sul suo modello economico, anche quello che viene considerato virtuoso: il tessuto delle imprese è rimasto piccolo, frantumato, debole. Troppo indebitato ed esposto tutto sulle banche, come ha dimostrato la Banca d’Italia, ha faticato a trovare un nuovo equilibro e ha riempito le banche di crediti marci.

 

 

Ma la più grande mistificazione è che si possa organizzare una uscita ordinata dall’euro con un default concordato del debito. In un’intervista dell’estate 2015, Yanis Varoufakis, non più ministro delle Finanze, spiegò che la Grecia, se avesse deciso di uscire, sarebbe piombata in una situazione persino peggiore all’Argentina quando abbandonò l’aggancio al dollaro. Varoufakis giunse così alla conclusione che nell’euro si sa come entrarci, ma non come uscirne senza provocare catastrofi. “Una crisi innescata dai debiti sovrani sarebbe orrenda”, secondo Olivier Blanchard, l’economista francese già al vertice del Fondo monetario internazionale. In primo luogo nessuno degli strumenti di stabilizzazione che l’area euro ha creato in questi anni sarebbe sufficiente per salvare l’Italia che perderebbe anche la possibilità di accedere al quantitative easing della Bce. Un ricorso al fondo salva stati (il meccanismo europeo di stabilità) e quindi al rifinanziamento delle banche con il programma Otm, sarebbe condizionato a un pesante aggiustamento fiscale, il contrario di quel che le forze vincitrici delle elezioni hanno promesso. Inoltre c’è la taglia di un paese come l’Italia con tutte le sue interconnessioni economiche. “L’euro potrebbe sopravvivere a una Italexit, aggiunge Blanchard, ma l’intera Unione europea ne sarebbe scossa. La bancarotta di banche e imprese, la restrizione del credito, la caduta degli investimenti e dei consumi provocherebbe una recessione pesantissima contagiando l’intera economia mondiale.

 

Eppure molti economisti, in particolare vicini a Lega e M5s, sostengono che l’uscita dall’euro con conseguente svalutazione e un debito allineato ai nuovi valori, porterebbe più benefici che costi. Un anno fa Mediobanca securities calcolò un beneficio equivalente a 8 miliardi di euro sul debito pubblico. Secondo un calcolo di Giampaolo Galli e Lorenzo Codogno, ex capo economista al ministero del Tesoro, ci sarebbe, invece, una perdita di 468 miliardi pari al debito che non si può ridenominare più una svalutazione del 30 per cento della nuova lira che, tra l’altro, porterebbe il rapporto tra debito e pil al 190 per cento.
I problemi sarebbero risolti, secondo i partiti no-euro, stampando banconote senza più limiti. Il fatto è che la moneta dovrebbe essere utilizzata come strumento di politica fiscale per salvare dal fallimento banche, imprese e persone fisiche, oltre che per impedire la bancarotta dello stato. Tutto questo andrebbe fatto con grande rapidità perché i mercati sono pronti ad anticipare le mosse del governo bloccando il credito a banche e imprese. Lehman Brothers insegna. Le difficoltà si presenterebbero quindi molto prima dell’effettiva uscita. Uno dei paradossi meno spiegabili riguarda proprio questo gioco al gatto e al topo con i mercati. Da una parte gli anti euro scrivono che l’operazione andrebbe preparata in gran segreto, nella notte di una domenica per cogliere tutti alla sprovvista. Dall’altra sostengono che il piano B è una pistola carica con la quale andare a Bruxelles per trattare migliori condizioni per l’Italia. Addio contropiede, addio sorpresa, ormai sono tutti avvertiti. Spiegano Galli e Codogno: “La svalutazione in una piccola economia aperta con importazioni rigide di materie prime ha un impatto molto maggiore sui prezzi che una svalutazione in un paese come gli Stati Uniti. L’inflazione aumenterebbe immediatamente, a causa dell’uso della Banca centrale per monetizzare il debito pubblico e per cercare di evitare fallimenti a catena nel settore privato. Tutto questo verrebbe anticipato dai mercati finanziari, ponendo in tal modo ulteriori pressioni al rialzo sui tassi d’interesse molto prima della effettiva uscita dalla moneta unica”.

 

Le esportazioni italiane corrono a ritmi elevatissimi. Ciò ridimensiona una delle accuse più frequenti al mercantilismo tedesco: un attivo eccessivo della bilancia commerciale avrebbe penalizzato l’industria italiana, ma così non è stato

Ma c’è un argomento che gli anti euro evitano come la peste perché fa franare la loro intera costruzione. Una svalutazione esterna aumenta le esportazioni nette e il pil solo comprimendo il potere d’acquisto dei salari. Se le retribuzioni sono completamente indicizzate o se i sindacati riescono ad evitare perdite per i lavoratori, la svalutazione della moneta non ha alcun effetto sulle variabili reali e modifica solamente il livello dei prezzi. Milton Friedman ha scritto che una variazione del cambio è come l’ora legale, mentre una svalutazione interna equivale a costringere ogni individuo a modificare le proprie abitudini. Friedman pensava che fosse più semplice cambiare l’ora legale, e per questo motivo preferiva i tassi di cambio flessibili. Tuttavia, la svalutazione è più iniqua perché fa male ai piccoli risparmiatori, ai pensionati, alle classi sociali deboli che non hanno modo di proteggersi dal rialzo dell’inflazione. Si dice che “con l’euro l’Italia può ritrovare la competitività soltanto attraverso una riduzione dei salari, mentre esiste una soluzione semplice che consiste nella svalutazione del tasso di cambio”. E’ vero il contrario. Prima dell’euro, l’Italia recuperava riducendo i salari reali con la svalutazione della lira, adesso le imprese e il governo sono costrette a trattare con i lavoratori.

 

Di errori l’Unione europea e i maggiori paesi della zona euro ne hanno commessi tanti, sia chiaro. A cominciare dalla gestione della partita greca che ha innescato la crisi del 2011. Tuttavia anche in questo caso non va mai dimenticato che furono i greci, all’inizio, a truccare i conti pubblici. Dal 2012 sono stati introdotti nuovi strumenti per far fronte alle emergenze, ma forse la riforma più importante riguarda la politica monetaria della Bce, trasformata da Mario Draghi senza rimettere in discussione lo statuto della Banca centrale, anzi rimanendo all’interno del mandato originario. C’è stato un cambiamento concettuale, perché ormai si guarda alla stabilità dei prezzi all’interno della più generale stabilità del sistema finanziario, grazie alla quale è possibile adottare misure inusuali, come il quantitative easing. Oggi non c’è più molta differenza, di fatto, tra la Bce e la Federal Reserve americana. Si dice comunemente che la Fed impedisce il fallimento degli stati comprando i titoli pubblici, ma questo non è vero, anzi è proibito esplicitamente. I singoli stati possono fallire e sono falliti. Molti di loro hanno anche un esplicito obbligo al pareggio di bilancio, in ogni caso debbono finanziarsi sul mercato senza nessuna garanzia federale. E il debito del governo centrale, non è forse protetto dal dollaro che dal ferragosto del 1971 non ha più nessun ancoraggio fisso? Sì e no. Un primo vincolo all’indebitamento è di natura politica, perché viene di volta in volta discusso e approvato dal Congresso (come anche in Italia con la legge di bilancio). Ma il limite di fondo è la creazione di moneta che deve sostenere la crescita reale con una inflazione moderata. Anche qui il tetto all’ascesa dei prezzi è sempre discutibile (e viene ampiamente discusso) tuttavia non c’è a Washington nessun Totò che nottetempo stampa dollari senza alcun limite.

 

L’europeismo per default è finito, è ora di passare a un europeismo per convinzione basato sul riconoscimento che l’interesse nazionale non si può perseguire se non nel concerto delle nazioni europee

Recentemente si è acceso un sofisticato dibattito su come riformare l’euro innescato dal documento di 14 economisti francesi e tedeschi che non hanno solo una importante posizione accademica, ma sono ascoltati consiglieri dei rispettivi principi come Jean-Pisani-Ferry, principale architetto della piattaforma economico-politica di Emmanuel Macron; mentre dal lato tedesco vanno citati almeno Beatrice Weder di Mauro, che insegna all’università di Magonza, già membro del Consiglio degli esperti economici del quale si avvale la Cancelleria, e Clemens Fuest, capo dell’Istituto delle ricerche economiche, convinto che l’Italia finirà prima o poi fuori dalla moneta unica. Le loro proposte sono state criticate fortemente da alcuni economisti italiani come Marcello Messori, Stefano Micossi, Lorenzo Bini Smaghi e il gruppo dei Venti “per rivitalizzare l’anima Europa”, organizzato da Luigi Paganetto. Il punto di partenza è che la prossima crisi economica verrà dai debiti sovrani, quindi bisogna disinnescare questa bomba a orologeria. Come? La questione centrale è la ristrutturazione preventiva del debito utilizzando anche strumenti finanziari che servano a disincentivare quei governi che non rispettano i termini del piano di rientro. I 14 economisti vorrebbero escludere “strutturalmente” le banche dall’acquisto di titoli sovrani nazionali sotto stress e rimuovere le eccezioni per l’attivazione del bail-in. In caso di choc esterni, così, uno stato membro fortemente indebitato dovrebbe ricorrere al meccanismo di stabilità prima ancora che venga presa in considerazione qualsiasi ipotesi di intervento e di assistenza finanziaria. Invece del rapporto deficit/pil, il nuovo criterio per risanare le finanze sarebbe un tetto alla spesa pubblica inferiore al tasso di crescita dell’economia. L’Italia sarebbe messa immediatamente sotto tutela mentre le sue banche verrebbero sottoposte a un durissimo colpo. Anziché rendere l’area euro più solida, queste proposte alimentano il rischio di instabilità e indeboliscono le difese contro choc finanziari. Il ricorso al fondo salva stati una volta esaurite le risorse nazionali equivale a una dichiarazione di fallimento. Solo evocare questa possibilità genera fuga dei capitali e corse allo sportello. Quanto alla riduzione del debito, il tetto alla spesa rischia di essere più complicato da applicare rispetto al criterio del deficit. La politica fiscale spetta ai governi nazionali e non può non essere usata senza una certa discrezionalità.

 

“Uscire dall’euro è come ricomporre una frittata” ha scritto Roger Bootle, uno dei maggiori avversari della moneta unica. La frittata naturalmente si può sempre buttare, ma con essa finirebbero nella spazzatura anche le uova. Se per liberarsi dalla moneta unica bisogna uscire anche dall’Unione europea, entrano in ballo questioni di politica estera, considerazioni di fondo che riguardano gli schieramenti tra le potenze. Per la prima volta vogliono andare al governo due forze politiche le quali intendono spostare l’asse dell’Italia verso oriente, sollevando allarmi e preoccupazioni anche dal punto di vista della sicurezza militare. I servizi segreti della Nato si chiedono se davvero potrebbero scambiare liberamente informazioni con chi ha stretto accordi con il partito Russia unita, come ha fatto Matteo Salvini.

 

“Indipendenti sempre, isolati mai” era il motto del filo-francese Emilio Visconti Venosta, fin dall’unità d’Italia, un precetto fondamentale per un paese piccolo e sostanzialmente povero, bisognoso di legittimazione, ma ha finito per coprire i “giri di valzer” che hanno caratterizzato la diplomazia italiana dall’Intesa alla Triplica Alleanza e ritorno, per non parlare dell’asse Roma-Berlino-Tokio o dell’8 settembre 1943. Il secondo dopoguerra sembrava aver sciolto ogni imbarazzo nella “casa comune” europea, all’interno di due nuove coordinate ideali che servono a esorcizzare il passato: l’internazionalismo e il pacifismo. Ciascuna delle principali formazioni politiche dell’Italia repubblicana (la Dc, il Pci, il Psi, il Partito d’Azione) ha interpretato in modo diverso questa coppia teoretica: Alcide De Gasperi parlava apertamente di “limitare la sovranità nazionale a favore della società internazionale”, Togliatti voleva l’“internazionalismo proletario”, Nenni una sorta di terza via europea a guida laburista, ma alleata all’Unione sovietica, gli azionisti guardavano agli Stati Uniti d’Europa lanciati da Churchill nel 1946. Nell’articolo 11 della Costituzione, si ritrova il compromesso storico tra i partiti antifascisti, con il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e “le limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. C’è infine il riferimento esplicito a promuovere e favorire “le organizzazioni internazionali”. Peccato che non si faccia mai riferimento all’intero articolo 11 nell’acceso (e strumentale) dibattito interno sulla collocazione internazionale del paese.

 

In ogni caso, per i paesi vincitori l’Italia post-fascista andava denazionalizzata, una posizione condivisa dai partiti repubblicani. La Guerra fredda contribuirà a questo processo fino al punto da condizionare la politica interna alle sorti del confronto tra le due potenze planetarie, gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Accusati spesso di doppiezza machiavellica, in realtà i governi che si sono succeduti dal 1948 ad oggi, non hanno fatto mai mancare il sostegno agli Stati Uniti (si pensi al dislocamento degli euromissili negli anni 80), anzi hanno usato l’atlantismo per bilanciare il ruolo dominante dell’asse renano, soprattutto con un continuo sostegno alla presenza della Gran Bretagna negli organismi europei.

 

Con chi stare e come, è fondamentale per capire quale Europa vuole l’Italia e qual è il posto che intende ritagliarsi un paese che a lungo si è considerato europeista un po’ per fede ma soprattutto per inerzia e raramente ha messo al centro della riflessione razionale il suo posto a Bruxelles, con costi e benefici, limiti e possibilità. L’opinione prevalente è stata che l’interesse italiano coincide con quello europeo. Ha fatto scuola un calembour di Gianni Agnelli, eccellente battutista: dobbiamo stare abbarbicati alle Alpi per non cadere nel Mediterraneo. In modo meno pop-chic, è la questione posta più volte da Guido Carli che mise la sua firma sotto il Trattato di Maastricht: il paese dove fioriscono i limoni può essere “trascinato nella modernità” soltanto da un vincolo esterno. L’Italia non è mai stata protagonista in Europa, ma i protagonisti non hanno mai potuto fare a meno di lei. Su questa convinzione che risale a Dino Grandi, fa leva Paolo Savona al quale spetta il negoziato con la Ue. E’ la politica del “peso determinante” che viene ripresa nel secondo dopoguerra nel rapporto con gli Stati Uniti e persino nelle aperture verso l’Unione sovietica. Ma Roma resta ancora davvero indispensabile? Forse sì, tuttavia non può sempre limitarsi a chiedere un posto a tavola. L’europeismo per default è finito per sempre, è il momento di passare a un europeismo per convinzione basato sul riconoscimento che l’interesse nazionale non si può perseguire se non nel concerto delle nazioni europee.

 

L’Italia può far leva sui suoi punti di forza: non solo un grande e ricco mercato interno, ma una industria manifatturiera uscita dalla lunga recessione più competitiva e più specializzata, alcuni “campioni nazionali” in particolare nell’energia come Eni ed Enel, un gruppo della difesa come Leonardo (ex Finmeccanica) che si è saputo ritagliare una posizione di cerniera tra i colossi anglo-americani ed europei. La politica energetica è stata sempre collegata a scelte di fondo nella politica estera, fin dai tempi della “politica parallela” di Enrico Mattei. Sul piano delle capacità militari, l’esercito italiano ha sviluppato, fin dalle missioni in Libano negli anni 80, una esperienza e una professionalità elevata nel peace keeping e nel peace enforcing ed è impegnato in una quantità di missioni su diversi scacchieri internazionali. Da qui è possibile costruire un nuovo “peso determinante” nell’Unione europea se un gabinetto gialloverde non decide di punto in bianco di ritirarsi. Di nuovo la tempesta imperfetta, cioè auto-inflitta per poi frignare contro l’arroganza altrui come un bambino delle elementari.

 

L’abate di Tournai che abbiamo citato all’inizio aveva ragione. Lo ha spiegato chiaramente lo storico Marc Bloch dal quale abbiamo preso la citazione: “A un tempo barometro di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse, i fenomeni monetari si collocano tra i più rivelatori, i più carichi di vita”, perché la moneta è un’arma potente, una leva per cambiare intere società. E forse anche Bloch avrebbe certamente concluso che proprio per questo la battaglia dell’euro va combattuta fino in fondo.