Perché a Salvini serve dignità sul lavoro
Fino a quando un partito che rappresenta la parte produttiva del paese può essere complice della decrescita infelice dell’Italia? La partita più importante per Salvini è sul lavoro non sui migranti. O si cambia il decreto oppure è meglio tornare a votare
“Instead of encouraging investment, the country’s new government is making it harder”. A quasi due mesi dalla nascita del governo Conte, una delle domande più importanti a cui occorrerebbe rispondere con urgenza per capire il futuro dell’esecutivo coincide con una domanda cruciale: fino a quando Salvini riuscirà a prendere in giro i suoi elettori? Al contrario di quello che si potrebbe credere, il leader della Lega non passerà alla storia per quello che farà sull’immigrazione, dove nel migliore dei casi riuscirà a mantenere una linea di continuità con quanto fatto dal suo predecessore, ma verrà giudicato per quello che farà su un terreno che solo teoricamente non è di sua competenza: il lavoro.
Il ministro del Lavoro, come sappiamo, non è Matteo Salvini ma è Luigi Di Maio. Ma mentre il capo politico di un movimento nato per dare un sussidio di cittadinanza a tutti i disoccupati d’Italia può paradossalmente permettersi di non interessarsi degli occupati, il leader di un partito che rappresenta la parte più produttiva e operosa del paese, con le sue piccole imprese, i suoi commercianti, gli artigiani, gli agricoltori, le partite Iva, i liberi professionisti, non può permettersi di essere l’azionista chiave di un governo che il lavoro piuttosto che incentivarlo è destinato a disincentivarlo, e che al posto di combattere la povertà ha scelto di combattere la ricchezza.
E allora ecco il punto: fino a quando Matteo Salvini, anche grazie a una riforma del lavoro che irrigidisce il mercato del lavoro, disincentiva le assunzioni, rende più instabili i contratti a termine e penalizza gli imprenditori, potrà permettersi di essere percepito dal suo elettorato produttivo come qualcosa di più simile a un ministro dell’Inferno che a un ministro dell’Interno?
Passino le pazzie sull’euro, che fino a quando ci sarà un ministro dell’Economia con la testa sulla spalle saranno solo folclore elettorale. Passino le pazzie su Schengen, che fino a quando ci saranno le Merkel e i Macron e persino i Sánchez saranno solo folclore populista. Ma in un contesto in cui il governo Salvini-Di Maio ha già affossato in modo consistente la credibilità dell’Italia sui mercati (l’Fmi ha tagliato le stime della crescita italiana a causa “dell’allargamento dello spread sul debito sovrano e le condizioni finanziarie più strette sulla scia delle recenti incertezze politiche che impatteranno sulla domanda interna”) può davvero Salvini permettersi di passare alla storia come il vicepremier che non ha mosso un dito per non far diventare l’Italia un inferno per tutti coloro che ogni giorno tentano di investire quattrini nel nostro paese e dunque di creare lavoro?
Il bulletto della Lega, come è noto, non è our cup of tea, e la nostra opposizione al salvinismo è dettata non da semplice ideologia ma dalla consapevolezza di quanto può essere pericoloso per la settima potenza economica del mondo diventare la Mecca del protezionismo sovranista. Ma sulla partita del lavoro – Confindustria ha perfettamente ragione quando dice che i numeri dell’Inps, che stima ottomila posti di lavoro persi grazie al decreto dignità nei prossimi dieci anni, sono persino ottimisti perché sottovalutano i guai che questa riforma può creare: i dati non si fanno intimidire – va riconosciuto che Matteo Salvini ha una chance concreta, e forse unica, per dimostrare di non essere stato settato solo per giocare con le chiacchiere e con i distintivi della propaganda elettorale.
Difendere il lavoro dall’ideologia sindacale della Luigi Di Maio Associati significa avere il coraggio di sfidare la Cgil e il Movimento 5 stelle su tre punti cruciali del decreto dignità: l’aumento del numero di rinnovi possibili per i contratti a termine (erano cinque, oggi sono tre), uno sgravio ulteriore per i contratti a tempo indeterminato (sul modello Jobs Act), l’eliminazione delle causali necessarie per rinnovare i contratti a termine (per evitare contenziosi futuri chissà quanti imprenditori piuttosto che rinnovare un contratto sceglieranno un altro soggetto da contrattualizzare). Diventare la voce delle imprese nel governo potrebbe essere un’occasione politicamente ghiotta per il Truce leader della Lega (cosa che però è incompatibile con lo schema di governo usato finora da Salvini e Di Maio: non trovare punti di mediazione sulle singole leggi, ma trovare punti di mediazione tra i provvedimenti, io faccio questo, tu fai quello, e anche se a me il tuo provvedimento fa schifo non dico niente perché tu accetterai il mio senza battere ciglio).
Se Salvini avesse i maroni questa occasione andrebbe difesa con i denti. Sapendo che passare alla storia come il ministro del nord che ha contribuito alla decrescita infelice dell’Italia, e della sua occupazione, potrebbe essere per Salvini la pietra tombale sul suo futuro politico. E la partita, per l’Italia prima ancora che per il governo, è così delicata che il leader della Lega avrebbe il dovere di preparare la sua battaglia su questo fronte anche correndo il rischio di far saltare il governo. O si cambia sul lavoro oppure meglio cambiare tutto e tornare a votare. Con la consapevolezza che ogni giorno che passa – come segnalato da Bloomberg pochi giorni fa – l’Italia non fa altro che confermare di essere un paese che piuttosto che incoraggiare gli investimenti ogni giorno se ne inventa una per disincentivarli. Non è una questione di stile. E’ prima di tutto, per Salvini, una questione di dignità.
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