Pier Carlo Padoan e Paolo Savona (elaborazione grafica Il Foglio)

Piano, Savona

Pier Carlo Padoan

Tre punti di accordo e quattro di disaccordo sulla riforma dell’Ue con il ministro degli Affari europei

Il 7 settembre il ministro per gli Affari europei Paolo Savona ha inviato a Bruxelles un documento intitolato “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”, che contiene una proposta di riforma dell’Unione europea. Sono d’accordo con il documento del ministro Savona sui seguenti punti.

 

1) Una strategia di crescita in Europa deve basarsi sia su politiche dell’offerta che su politiche della domanda.

 

2) In questo quadro gli investimenti (pubblici e privati) svolgono un ruolo centrale (anche perché impattano sia sull’offerta che sulla domanda).

 

3) Ne segue che la governance economica dell’Europa (e in particolare della zona euro) deve essere modificata per sostenere queste linee programmatiche.

 

Vorrei anche chiarire su cosa non sono d’accordo. Non sono d’accordo (anzi sono preoccupato) sul ruolo che dovrebbe svolgere la Bce. In particolare mi preoccupa l’idea che la Bce dovrebbe essere messa in condizione di “azzerare” gli spread sui tassi di interesse, anche con interventi selettivi (cioè a favore solo di alcuni paesi). Questa impostazione riflette l’idea che tali differenziali siano frutto “della speculazione”, piuttosto che di fattori che, come lo stesso Savona sembra ammettere, sono di natura strutturale e riflettono il rischio specifico del paese. Va ribadito con decisione che i determinanti di tale differenziale di rischio sono di natura strutturale (i determinanti della capacità di crescita di lungo periodo), sono legati alla sostenibilità del debito pubblico, ma anche alla fiducia che i mercati ripongono nella capacita del paese (e dei suoi governanti) di affrontare le crisi. Sono anche legati alla credibilità degli annunci (che come il presidente della Bce ha recentemente ricordato, possono fare danni seri al paese tramite l’impatto, a volte immediato, sul costo del debito). L’azzeramento artificiale dei differenziali, oltre a non accelerare, anzi ritardare, l’aggiustamento nazionale, avrebbe l’effetto di minare la fiducia collettiva nella sostenibilità dell’unione monetaria (che lo stesso Savona dice di volere preservare). In questo quadro, paradossalmente, la speculazione finirebbe per essere incoraggiata, invece che ridotta. Ritengo utile, come propone Savona, affrontare il tema di come costruire una politica fiscale comune della zona euro. Politica senza la quale il processo di unificazione economica e monetaria non potrà dirsi completo. Questo tema è gia nel dibattito europeo da tempo e l’Italia nei mesi e anni passati vi ha contribuito, anche a livello di proposte di governo. Vale la pena di ricordarle. L’Italia ha sostenuto, tra l’altro, la creazione di una figura istituzionale, “Il ministro delle finanze della zona euro”, che avesse il mandato di avviare e governare una serie di politiche di esplicita pertinenza europea quali:

 

1) la definizione e l’implementazione di una fiscal stance comune della zona euro che non fosse la semplice aggregazione delle politiche fiscali nazionali;

 

2) l’attivazione di un meccanismo europeo di assicurazione contro la disoccupazione ciclica;

 

3) l’avvio di un bilancio della zona euro;

 

4) il rispetto dell’impegno, già preso dai paesi dell’Unione, di avviare il meccanismo di sostegno al fondo di risoluzione unico.

 

Fino a oggi la diversità di visione tra gli stati membri ha posto un freno alla definizione di una fiscal stance europea, con l’argomentazione che questa avrebbe minato la disciplina negli stati a più alto debito.

 

Il meccanismo europeo di disoccupazione ciclica, originariamente osteggiato dalla stragrande maggioranza dei paesi membri, sta crescendo nei consensi ed è presente anche nelle proposte del governo tedesco. Il bilancio della zona euro fa parte delle proposte della Commissione per la riforma del bilancio dell’Unione. I progressi sono però lenti. A volte ci sono passi indietro, come spesso è accaduto nella storia dell’integrazione europea. Ma ora ci troviamo di fronte a una fase molto particolare del processo di integrazione, in vista di un appuntamento cruciale come quello delle prossime elezioni per il Parlamento europeo, da cui potrebbe uscire una maggioranza di chiara intonazione anti europea. L’Europa deve mostrare la sua capacità di rinnovarsi e soprattutto di mettere in cima alla sua agenda la crescita, l’occupazione, la protezione sociale e di essere parte della soluzione ai problemi dei cittadini europei. Questo richiede un programma che agisca sia sul lato dell’offerta, con riforme e misure in grado di accrescere la produttività e la crescita potenziale, sia dal lato della domanda, anche allo scopo di accelerare la diffusione dei benefici delle riforme (è documentato che le riforme strutturali aumentano il loro impatto in condizioni di domanda in espansione).

 

Per affermare un’idea di Europa che riproponga e rinnovi un progetto di crescita inclusiva occorre quindi definire una strategia articolata. Ma occorre anche, ovviamente che tale strategia possa essere condivisa tra i paesi membri, che si basi sul principio della condivisione del rischio e della ricerca di “valore aggiunto europeo”. A oggi la produzione di tale valore aggiunto è stata limitata da due fattori. L’assenza di sufficiente attenzione al tema della crescita inclusiva e la carenza di fiducia reciproca. Se la risposta europea è debole e poco condivisa si fa spazio al sovranismo. L’alternativa “sovranista” rifiuta soluzioni europee e preferisce soluzioni nazionali, alimentando la sfiducia reciproca, e innescando un circolo vizioso che non potrebbe che portare allo smantellamento delle politiche comuni. Ma ciò che alimenta la visione sovranista è anche la insufficiente risposta comune europea. Anche tra le posizioni dei paesi che sostengono il progetto europeo vengono alimentate le divisioni tra paesi: tra “rigoristi” e “indisciplinati”, tra paesi del nord e quelli del sud, tra debitori e creditori. I fattori di divergenza sembrano prevalere su quelli di convergenza. Un programma di riforma delle istituzioni della governance può sembrare troppo ambizioso, come spesso è accaduto in passato. Ma, oggi, rischia di essere addirittura inadeguato di fronte alle sfide di consenso che ci sono davanti.