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Il piano (inclinato) di Savona. E' l'Italia che non cresce, non l'Europa

Sandro Brusco

Il documento rivela una visione arcaica e si limita a chiedere più soldi agli altri. Non ce ne daranno (per fortuna)

Da un paio di settimane circola un documento del ministro per gli Affari europei Paolo Savona dal pomposo titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Niente di particolarmente interessante, l’unica proposta vera contenuta nel documento è quella di istituire un “gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei Trattati”. L’ovvio obiettivo è quello di farsi dare dagli altri paesi europei qualche soldo per investimenti pubblici a tasso ridotto, oltre a un atteggiamento più lasco sulla nostra (mancata osservazione della) disciplina di bilancio. Giustamente e per fortuna non andrà da nessuna parte e la discussione potrebbe finire qui. Al di là della sua irrilevanza pratica però il documento presenta un qualche interesse come spia del modo di pensare che alberga in ampie zone del mal chiamato “governo del cambiamento”. E’ quindi utile per chiarire le basi del pensiero, se così vogliamo chiamarlo, della maggioranza gialloverde.

 

La frase chiave si trova nella prima pagina del documento: “Il governo italiano intende trovare una forma di collaborazione con i 27 stati membri per studiare e risolvere le debolezze istituzionali e politiche che si riflettono in un saggio di crescita reale permanentemente inferiore al resto del mondo sviluppato”. In termini programmatici è una frase vuota, ma è evidente il tentativo di far passare un problema di crescita che è soprattutto italiano come fosse un problema europeo. Le cose stanno diversamente. Abbiamo controllato i tassi di crescita reale del pil delle diverse economie, disponibile sul sito del World economic outlook del Fondo monetario internazionale.

 

Prendendo la media aritmetica dei tassi di crescita del pil nel periodo 1998-2017, risulta che l’area euro è cresciuta in media del 1,49 per cenot e l’Unione europea dell’1,80 per cento. Nello stesso periodo i paesi del G7 (il “mondo sviluppato” di cui parla Savona) sono cresciuti in media del 1,75 per cento. Vero quindi che l’area euro è cresciuta un po’ di meno, ma niente di drammatico. Quello che invece è drammatico è il dato italiano. La crescita media nello stesso periodo è stata dello 0,5 per cento, un terzo di quella dell’area euro. Anche un paese che ha fatto un po’ fatica, come il Portogallo, è pur sempre cresciuto a un tasso medio dell’1 per cento, il doppio di quello italiano. La Francia è cresciuta del 1,55 per cento, la Germania del 1,44 per cento e la Spagna del 2,1 per cento. La situazione non migliora se invece di prendere una prospettiva ventennale guardiamo al periodo più recente. Prendiamo i dati 2014-2017 (per evitare di considerare il 2013, che fu pessimo per l’Italia). Durante questo periodo la media aritmetica dei tassi di crescita reale del pil è stata di 1,90 per cento per i paesi del G7. Per l’area euro è stata pari a 1,89 per cento e per l’Unione europea è stata del 2,23 per cento. Quindi no, l’Europa non ha un particolare problema di crescita, almeno se si guarda al mondo sviluppato. Certo, cresciamo meno (molto meno) della Cina, ma questo è tutto meno che sorprendente.

 

E l’Italia? Qui vale la pena di guardare i dati di tutti gli anni. L’Italia ha avuto un annus horribilis nel 2013, con un calo pari a -1,73 per cento. La reazione è stata lenta è modesta: 0,11 per cento nel 2014, 0,95 nel 2015, 0,86 nel 2016 e 1,47 nel 2017. Una media di 0,85 per cento, la metà dell’area euro. Il confronto con i singoli paesi è anche esso impietoso. Nel periodo 2014-2017 la Germania è cresciuta in media dell’1,95 per cento, il Portogallo dell’1,75 per cenot e la Spagna del 2,78 per cento. Solo la Francia non si distacca troppo, con un 1,27 per cento, che resta comunque quasi mezzo punto percentuale al di sopra del dato italiano.

 

Ovviamente di crescita non ce n’è mai abbastanza, checché ne pensino i seguaci di Latouche, ed è giusto che l’Europa non sia soddisfatta della sua performance e cerchi di fare meglio. Ma è inutile raccontarsi fandonie: i dati ci dicono che il problema di crescita è un problema specificamente italiano, non europeo. Le soluzioni vanno cercate in Italia, non nella creazione di ameni gruppi di dibattito sui massimi sistemi europei.

 

Purtroppo le soluzioni non verranno certo da questo governo, che si sta attivamente operando per ridurre la crescita perseguendo le solite strategie di regolamentazioni inutili e dannose (il malissimo chiamato “decreto dignità”, i progetti di rinazionalizzazione di Alitalia e varie altre cosette) e di espansione della spesa pubblica assistenziale a fini di acquisto del consenso elettorale. Anche senza questi problemi che possiamo chiamare, in modo troppo nobile, di interazione tra gestione del consenso politico e gestione dell’economia, ci sarebbe comunque poco da stare allegri. Il resto del documento di Savona rivela una visione grottescamente arcaica in cui l’unico modo di far crescere l’economia è quello di drogarla continuamente con investimenti pubblici. Vi sono alcuni punti francamente infantili, come quando si afferma che la “attuazione a livello nazionale di una politica fiscale centrata sugli investimenti richiede ... un’esatta conoscenza dei moltiplicatori della spesa di questo tipo”. Buona fortuna signor ministro, le stime dei moltiplicatori sono quanto di più ballerino esista in economia. Ma, di nuovo, tutto questo conta abbastanza poco. Non ci sarà, e vien da dire per fortuna, nessun aiuto da parte dell’Unione europea per aumentare la nostra spesa per investimenti pubblici. Torniamo pure a occuparci delle liti da comari sul decimale di punto di deficit, continuando a ignorare che è l’Italia ad avere un problema di crescita, non il resto del mondo.

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