Marinus van Reymerswaele, “Il cambiavalute e la moglie”, 1539 (Parigi, Louvre)

Dalla lira italiana a quella turca

Speculazione, il demone che ritorna a ogni bufera finanziaria

Stefano Cingolani

La crisi del 1971, il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia avversato oggi dai sovranisti, il fatidico 1992, il biennio terribile in cui l’euro ha rischiato di saltare: tutta colpa degli gnomi di Borsa? No, anche dei governi

Guido Carli aveva lasciato Paolo Baffi a guardia di Via Nazionale durante quel turbolento Ferragosto 1971. C’erano tensioni, eccome, sui mercati dei cambi, e il dollaro sembrava stretto in una tenaglia soffocante. La valuta egemone, l’unica in occidente a poter essere convertita in oro, non riusciva a tenere la parità con il metallo giallo. Prima o poi si sarebbe scatenato “il disordine nel tempio della finanza mondiale”, come scrisse poi il governatore. Ma leggiamo i suoi ricordi: “La Banca d’Italia fu informata della decisione americana di sganciare il dollaro dall’oro nella notte tra il 15 e il 16 agosto. Paolo Baffi, allora direttore generale, mi avvisò subito a Nizza, dove mi trovavo per qualche giorno di vacanza. Rientrai immediatamente. Il 16, d’accordo con le banche centrali di tutto il mondo, chiudemmo il mercato dei cambi che da tempo dava segni di grave turbamento. Il dollaro non era più il sovrano incontrastato del sistema monetario e parecchie banche centrali preferivano avere nelle proprie riserve una quota d’oro anziché accettare moneta americana in misura sovrabbondante. Del resto il presidente De Gaulle era stato il primo ad inaugurare questa tendenza. Nel 1968 gli Stati Uniti avevano già dovuto sganciare parzialmente la loro moneta dall’oro, decidendo, insieme ai maggiori Paesi industriali, che il prezzo ufficiale del metallo – 35 dollari per un’oncia – sarebbe stato applicato soltanto alle transazioni tra Banche Centrali e non con i privati”.

 

Nel turbolento Ferragosto 1971 c’erano tensioni sui mercati dei cambi, e il dollaro sembrava stretto in una tenaglia soffocante

“Non fummo presi alla sprovvista dalla dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro – continua Carli – Avevamo capito da tempo che gli Stati Uniti avrebbero fatto un vero e proprio coup de theatre. A metà del giugno 1971 ero stato a Washington per incontrarmi con John Connally, allora Segretario al Tesoro. Nella stessa occasione avevo anche avuto lunghi colloqui con Paul Volcker, che era il vice di Connally. La diagnosi delle autorità monetarie americane era molto chiara. “Sono finiti i tempi”, mi dissero Connally e Volcker, “nei quali questo paese poteva fare tutto senza che ciò incidesse sul tasso d’inflazione. Abbiamo finanziato contemporaneamente la guerra del Vietnam, i programmi di sicurezza sociale, l’agricoltura, gli artigiani, gli studenti, la costruzione di case. Adesso è arrivato il momento delle scelte”. Non mi dissero quali sarebbero state le scelte. Ma capii che stava tramontando l’epoca che gli americani hanno definito delle “unlimited opportunities”, delle occasioni illimitate. Il resto del mondo si era troppo abituato all’idea che l’America poteva fare tutto: invece non era più così. E la prova l’avemmo a cominciare da quel 15 agosto 1971”.

 

Carli conclude con una valutazione che trova d’accordo i suoi allievi: “Negli anni che sono seguiti da allora, una buona parte delle incertezze dell’Europa è stata causata dalla necessità di doversi adattare a uno scenario nel quale ciascuno deve contare anche sulle proprie forze e non soltanto su quelle del potente alleato. A giudicare da quanto accade, non mi pare che le nazioni europee abbiano tratto da quel messaggio d’allora tutte le implicazioni che esso conteneva. Fosse così, ci sarebbe già in Europa una moneta unica, sarebbero state messe in comune le riserve delle Banche centrali, sarebbe stata concordata una politica europea nei confronti del dollaro”. Una moneta europea oggi c’è, ma non una politica nei confronti del dollaro: è il tasto su cui batte da tempo Paolo Savona che nel 1971 era al fianco di Carli alla Banca d’Italia. Una posizione non condivisa dagli ortodossi della Bundesbank e della Banca centrale europea.

 

Comincia così la storia che stiamo vivendo ancor oggi, una storia non solo monetaria, perché la moneta riguarda, come sempre, “formidabili conversioni delle masse” (Marc Bloch); una successione di sfortunati eventi accompagnati da crisi e bufere la cui colpa viene regolarmente gettata sulla Speculazione, con la maiuscola perché rappresenta ormai un mito, anzi un demone. Che cosa ha detto, del resto, Recep Tayyip Erdogan? “Loro hanno il dollaro, noi Allah”. E che cosa sostengono più prosaicamente gli italici seguaci, anche quelli che hanno studiato alla Bocconi? Evocano il grande satana, che per i più accesi ha il volto grifagno di George Soros, e hanno già trovato il capro espiatorio per la tempesta che s’abbatterà sull’Italia, quando sarà chiaro, ancora una volta, che una politica irrazionale non può essere misurata dal calcolo razionale che genera il prezzo.

 

“Capii che stava tramontando l’epoca che gli americani hanno definito delle ‘unlimited opportunities’” (Guido Carli)

Speculare, dal latino specula, significa osservare, guardare avanti, vedere prima (e meglio) degli altri. In economia, secondo il dizionario Treccani denota una “operazione commerciale o finanziaria consistente nell’acquistare per rivendere, o nel vendere per ricomprare, con il fine di conseguire un profitto dalla differenza di prezzo (di merci, valute o titoli) in diversi momenti del mercato”. Gli speculatori sono come i guardiani notturni che scandivano la notte del castello. “Sono le tre e tutto va bene”. Finché non arriva l’alba e scatta l’allarme. La speculazione suona una campana che, come quella di John Donne, suona per tutti noi, anche per quelli che non la vogliono ascoltare. E proprio Carli, che pure tuonerà spesso contro i comportamenti pericolosi degli operatori finanziari, ci riporta ai fondamentali dell’economia e alle scelte della politica: “La prova fu tremenda – ricorda ancora – Tra la fine del ’71 e il febbraio-marzo ’73, gli Stati Uniti inondarono gli altri paesi industriali di dollari, quindi di liquidità eccedentaria, quindi d’inflazione. Il mercato che più d’ogni altro dovette subire questi movimenti fu quello tedesco. Poiché a un certo punto la situazione diventò insostenibile, fu giocoforza arrivare alla fluttuazione dei cambi, con massicci interventi delle Banche centrali europee sul mercato per contrastare i movimenti della speculazione. Nacque a questo punto il tentativo di sganciare almeno parzialmente l’area monetaria europea da quella del dollaro, che culminerà qualche anno dopo nella creazione dello Sistema monetario europeo”.

 


Marinus van Reymerswaele, “Esattori delle tasse”, 1540 (Parigi, Louvre)


  

Una moneta europea oggi c’è, ma non una politica nei confronti del dollaro: è il tasto su cui batte da tempo Paolo Savona

Il 6 ottobre 1973 durante lo Yom Kippur, la festa ebraica dell’espiazione, Egitto e Siria attaccarono a tenaglia Israele. I paesi arabi produttori di petrolio raddoppiarono il prezzo del greggio, come esplicita mossa politica antiamericana e antioccidentale. La crisi del petrolio provocò nei principali paesi consumatori disavanzi spaventosi nelle bilance dei pagamenti. Nel gennaio ’74, in presenza delle prime notizie sull’ammontare di quei disavanzi, il segretario al Tesoro americano, George Shultz, dichiarò che la situazione era ingestibile. “Mentre i banchieri centrali e gli uomini di governo discutevano, il mercato provvedeva da solo – scrive Carli – i petrodollari incassati dagli sceicchi in pagamento del petrolio e depositati presso le filiali europee delle banche americane venivano da queste ultime prestati ai paesi industriali deficitari, per finanziare i loro acquisti di petrolio”.

 

Prese il via anche la lenta agonia della lira durata fino al crollo definitivo del 1992. Sparvieri, avvoltoi, locuste si avventarono spesso sulla moneta italiana, ma ad attirarli è stata la politica dei governi e, per la verità della stessa banca centrale che rispose stampando moneta alle pressioni esterne e soprattutto a quelle interne. Carli stesso si difese dicendo che non poteva agire da sovversivo, ma le cose sono molto più complicate come spiegano Michele Fratianni e Franco Spinelli, nella loro Storia monetaria d’Italia. L’inflazione affluiva con il petrolio e si sommava a quella domestica. In media negli anni Settanta i prezzi sono cresciuti del 12 per cento, con una punta del 15 per cento tra il 1973 e il 1978, costringendo l’Italia a ricorrere al Fondo monetario internazionale. Il Tesoro ha contribuito per il 122 per cento all’aumento della moneta nell’intero decennio. Il circolo vizioso anche allora è cominciato con spese che superano regolarmente le entrate fiscali. Il disavanzo pubblico (in media del 6,3 per cento contro lo 0,4 della Francia, l’1,6 della Germania e il 2,4 della Comunità europea, tra il 1971 e il 1980) è stato coperto stampando lire, con un massimale imposto alle banche che debbono detenere una notevole quota di titoli di stato, e mettendo vincoli alla circolazione della valuta con l’estero.

 

La svolta avverrà nel 1981 sull’onda della stretta monetaria americana e della rivoluzione liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La scelta fondamentale si chiama “divorzio”, tra il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. I “sovranisti” attribuiscono a questa decisione voluta dall’allora ministro del Tesoro Nino Andreatta, la responsabilità della impennata del debito pubblico, perché avrebbe reso più incerto e costoso vendere i titoli di stato sul mercato. In realtà, non fu un vero divorzio, ma una lunga e lenta separazione, con interventi della Banca centrale per calmierare i prezzi. Restarono in vita fino al 1989 i vincoli di portafoglio, il massimale sul credito e i limiti ai movimenti di capitale. Il big bang della finanza in Italia arrivava in ritardo e mai in modo completo. Quanto al debito, continuava a crescere perché il divario tra entrate e uscite non è stato mai colmato. Nel fatidico 1992 superò il 105 per cento del prodotto lordo (salirà fino al 121,2 nel 1994 anche come conseguenza degli choc valutari).

 

“Loro hanno il dollaro, noi Allah”, ha detto Erdogan. In Italia si evoca il grande satana: per i più accesi ha il volto di George Soros

E arriviamo, così, al più grande attacco speculativo contro la lira. George Soros ancor oggi sostiene che “fu una legittima operazione finanziaria. Mi ero basato sulle dichiarazioni della Bundesbank, che dicevano che la banca tedesca non avrebbe sostenuto la valuta italiana. Bastava saperle leggere”. Nessun segreto, insomma. Nessuna informazione riservata o soffiata nei salotti dell’alta finanza, ma una lucida quanto spietata comprensione della realtà: “Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe – insiste Soros – Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie”.

 

La miccia s’accese già nel 1991 con la svalutazione del markka finlandese colpito dalla dissoluzione dell’Unione sovietica alla quale era legata l’economia della Finlandia. Poi l’onda d’urto s’abbatté sulla corona svedese mettendo in ginocchio l’intero sistema bancario tanto che il governo fu costretto a nazionalizzare temporaneamente le banche. A quel punto, finirono nel mirino le due lire, quella britannica ormai lontana dalla muscolare rinascita thatcheriana e quella italiana logorata dal declino della Prima Repubblica. Paul Krugman nel 1979 la chiamò “crisi valutaria di prima generazione”. Quando un paese, in presenza di divergenze tra i suoi fondamentali economici e il tasso di cambio, tenta di mantenere quest’ultimo coprendo i disavanzi tramite riserve, nella mente degli speculatori si forma un “tasso ombra”, ovvero il valore del tasso di cambio qualora fosse lasciato libero di fluttuare. Inizialmente, i disavanzi vengono coperti da riserve valutarie della Banca centrale, finché l’intensificarsi della speculazione azzera le riserve. Come accadde in Italia. Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, era stato obbligato a dare il via libera al prelievo forzoso del sei per mille sui conti correnti nella notte tra il 9 e 10 luglio. I mercati capirono chiaramente come sarebbe andata a finire. Il governo e la Banca d’Italia guidata da Carlo Azeglio Ciampi decisero di difendere la valuta. Roma vendette riserve valutarie per 48 miliardi di dollari, una scelta che si rivelò inutilmente costosa. Quando la speculazione, nell’estate del 1992, attaccò la lira e la sterlina a seguito della bocciatura del Trattato di Maastricht da parte degli elettori danesi, c’era ormai ben poco da fare. Il Sistema monetario europeo prevedeva il sostegno delle banche centrali degli altri paesi. La Bundesbank, la Banca centrale tedesca, rifiutò non solo di comprare le valute sotto attacco ma di rivalutare il marco. Fu un altro perfido complotto teutonico? In realtà la Germania aveva un deficit di partite correnti e non voleva aggravarlo, quindi l’aggiustamento doveva avvenire a carico dei paesi deboli. Un errore politico, un calcolo sbagliato. Ma, se Krugman ha ragione, non poteva comunque arrestare l’onda.

  

Speculare, dal latino specula, significa osservare, guardare avanti, vedere prima (e meglio) degli altri. I guardiani notturni del castello

In Italia non bastò né l’aumento dei tassi d’interesse (13,7 per cento in media annua) né una iniziale svalutazione il 13 settembre 1992, così il governo Amato decise di abbandonare lo Sme il 17 settembre, all’indomani dell’uscita della sterlina. Pochi mesi dopo l’Italia ratificò il Trattato di Maastricht. I sostenitori del ritorno alla lira dicono che il deprezzamento valutario (il 30 per cento nel 1992 seguito dal 14 per cento nel 1995) fece bene all’economia italiana. In realtà, tra il 1993 e il 1998 il prodotto lordo aumentò in media dell’1,2 per cento, la spesa pubblica salì al 55,7 per cento del reddito, le entrate restarono al 47 per cento; l’inflazione scese al 3,8 per cento, ma rimase ben più alta della media europea. Se avessero ragione, d’altra parte, i sovranisti dovrebbero innalzare un monumento a Soros che ha aiutato a capire quel che i governi volevano nascondere. Svalutare la lira era esattamente l’obiettivo degli speculatori. In realtà, fu una ripresa drogata e nel 1997 la Banca d’Italia guidata da Antonio Fazio dovette stringere la cinghia per ridurre l’inflazione rilanciata dal deprezzamento valutario.

 

Anche nella crisi del 2008, gli astuti sciacalli che si riempivano di quattrini mentre crollava l’intera economia occidentale, erano stati nutriti dall’eccesso di credito (credit glut) del quale erano responsabili soprattutto gli Stati Uniti. I mutui subprime erano solo la punta di un iceberg cresciuto anche grazie alle politiche fiscali della seconda amministrazione Clinton. I primi scossoni nel luglio-agosto 2007 erano stati sottovalutati anche dalle banche centrali. Poi erano cominciati i crolli bancari, in Gran Bretagna con la Northern Rock, in Belgio, in Olanda, e via via fino al cuore del sistema, Wall Street e al fallimento della Lehman Brothers. La Goldman Sachs è stata messa sotto inchiesta per aver venduto allo scoperto, anticipando il grande crack e ampliandone gli effetti. Libri e film hanno reso popolari le sofisticate manovra di chi vende allo scoperto. Eppure furono i governanti dell’occidente a non capire il collasso del sistema che andava contrastato con misure sistemiche. Ci volle il massiccio piano di intervento straordinario varato da George W. Bush in novembre per tamponare il crollo, quando i buoi della finanza erano scappati.

 

Finanza e politica si sfidano, ma finché non prevale la democratura, questa dialettica è una versione globale della divisione dei poteri

Potremmo dire lo stesso di quel biennio terribile in cui l’euro ha rischiato di saltare: dal collasso della Grecia nel 2010 al quasi crac dell’Italia nel 2011, finché il 26 luglio 2012 Mario Draghi lanciò il suo monito: “Faremo tutto quel che è necessario per salvare la moneta unica”. Intanto aveva preparato armi e munizioni, fino al famoso bazooka finanziario: i prestiti alle banche illimitati e a tasso zero, il fondo salva stati, i tassi d’interesse negativi, il quantitative easing, l’acquisto di titoli di stato sul mercato secondario. Oggi il bilancio della Bce è pari a 4.600 miliardi di euro, oltre il 40 per cento del prodotto lordo dell’Eurozona; più della Federal Reserve, il cui bilancio è un quinto del pil Usa.

 

La speculazione speculò perché i governi, a cominciare dalla Germania e dalla Francia, nell’autunno 2010 non vollero prendere di petto la crisi greca; al contrario, al vertice di Deauville, il 18 ottobre, lanciarono il messaggio che in fondo Atene andava lasciata al suo destino e gli investitori privati dovevano accettare inevitabili perdite. Gli errori politici e le divisioni nell’Unione europea, ancora una volta, hanno ingrassato le banche d’affari. Ma ciò non può far dimenticare che la Grecia si è fatta male da sola gonfiando una bolla speculativa alimentata dalle banche straniere, ma decisa dai governi, aumentando il debito pubblico e truccando i conti dello stato. Anche la Turchia si è autoinflitta le proprie pene, indebitandosi forsennatamente in dollari, stampando moneta, creando inflazione, allargando un disavanzo commerciale che non può essere compensato nemmeno dall’export. Il prodotto lordo è cresciuto rapidamente e negli anni scorsi tutti esaltavano il boom, il mercato ha svelato quanto era drogato.

 

Intendiamoci, la speculazione ha una propria agenda politica, non vive in un mondo parallelo. Nell’autunno 2011 voleva la caduta del governo Berlusconi. Però il sollievo fu momentaneo e solo l’intervento di Draghi riuscì a cambiare lo scenario. Esiste anche la politicizzazione della finanza, lo si vede con la Turchia: Donald Trump non ha digerito l’acquisto delle batterie anti missile dalla Russia, poi l’arresto del pastore evangelico Andrew Brunson, accusato di spionaggio, ha fatto scattare le sanzioni. Con l’Argentina di Mauricio Macri che cerca di rimediare ai disastri dei tardo-peronisti, le banche d’affari stanno facendo un gioco sporco, non si fidano e scommettono sul ritorno dei vecchi vizi (i prezzi al consumo crescono del 30 per cento. Insomma, ci sono guerre combattute con altri mezzi, è la prova che finanza e politica si sfidano, s’alleano, s’intrecciano, ma finché esiste un sistema di mercato e non prevale lo statalismo autoritario (la democratura come oggi si dice) questa dialettica rappresenta una versione globale della divisione dei poteri reali.

 

Come si svolgerà l’eterno duello sul ring italiano? Giancarlo Giorgetti ha messo le mani avanti, lanciando l’allarme. Paolo Savona si è incontrato con Mario Draghi per assicurare che il governo italiano non farà follie e cercare a sua volta rassicurazioni. Ma di che tipo? Se bisogna credere a Claudio Borghi, il quale dice ad alta voce quel che altri del suo schieramento politico pensano, o la Banca centrale compra Btp nel momento in cui saranno sotto attacco (la Bce detiene titoli italiani per 340 miliardi di euro, circa il 15 per cento del debito), o l’Italia uscirà dall’euro. Di fronte a questo nuovo ricatto sistemico (sia pur potenziale) Draghi dovrebbe lanciare un nuovo monito, un “whatever it takes” per salvare l’Italia o, meglio un “hands-off”, giù le mani dal Bel Pese. E’ corretto? E’ realistico? Avverrà? Sono i grandi punti interrogativi di questo torrido agosto.

Di più su questi argomenti: