Foto Imagoeconomica

Sì: il contratto di governo è carta straccia

Claudio Cerasa

Le promesse populiste dipendono dall’aumento del deficit: Tria ha detto che non ci sarà. Scenari di una crisi sovranista

La domanda che buona parte degli osservatori politici da qualche giorno ha cominciato a farsi non coincide più con la parola “se” ma coincide con l’avverbio “quando”. Detto altrimenti, non si tratta più di capire “se” qualcosa di traumatico accadrà in questo governo ma si tratta innanzitutto di capire “quando” il trauma si manifesterà con chiarezza. L’intervista clamorosa rilasciata due giorni fa dal ministro dell’Economia Giovanni Tria al Washington Post è il segno che all’interno del governo sta maturando una consapevolezza legata a una verità difficilmente contestabile: l’esecutivo Conte potrà avere lunga vita solo a condizione che il contratto firmato da Matteo Salvini e da Luigi Di Maio non sia rispettato nei suoi punti più importanti. E i messaggi felpati che il ministro dell’Economia dissemina all’interno delle sue rassicuranti interviste sono lì a dimostrare che accanto alla politica della chiacchiera, buona per rassicurare i follower del sovranismo, c’è una politica dell’anti chiacchiera, che però ha il piccolo difetto di trovarsi in antitesi con il metodo del rutto libero populista. In questa legislatura, l’affermazione della politica dell’anti chiacchiera l’abbiamo vista almeno in due momenti decisivi – prima lo sbarco della nave che Salvini non voleva far attraccare (la Diciotti) e poi la conferma che l’Italia, come affermato due giorni fa dal ministro degli Esteri, nonostante i proclami di Salvini e di Toninelli, per il momento non chiuderà i porti. Ma se la battaglia sull’immigrazione per i populisti ha un impatto solo a livello mediatico, e sondaggi alla mano il saldo è positivo anche se ciò che viene annunciato non va a buon fine, la battaglia che avrà un impatto vero sulla tenuta del governo riguarda il lato economico. E qui per Salvini e Di Maio gli affari si complicano, perché non c’è intervista e non c’è dichiarazione in cui il più importante ministro del governo Conte, Giovanni Tria, non ripeta quello che ogni investitore con la testa sulle spalle vuole che sia confermato: il contratto di governo comprensivo di riforma delle pensioni, di flat tax, di reddito di cittadinanza, dal valore complessivo di 100-125 miliardi a regime (stime di Carlo Cottarelli), è un contratto che non verrà rispettato. Punto.

  

“Possiamo fare – ha detto Tria al Washington Post – il reddito di cittadinanza, la flat tax rispettando i limiti del deficit. I nostri leader politici non hanno mai detto di voler introdurre queste riforme aumentando il deficit”. La frase di buon senso del ministro dell’Economia, per quanto possa sembrare innocua, è in realtà un colpo devastante al principale punto del contratto firmato a fine maggio dalla Lega e dal Movimento 5 stelle, quello in cui si spiega in che modo il governo gialloverde intende finanziare le sue pazze promesse. E dato che uscire dall’euro non è più in programma – il premier Giuseppe Conte ha detto pochi giorni fa al Fatto quotidiano che per questo governo “l’euro è irreversibile”, do you remember Savona? – per finanziare una legge di Stabilità espansiva e capace allo stesso tempo di sterilizzare le clausole di salvaguardia (che da sole valgono 15 miliardi) la strada maestra è quella segnalata a pagina diciassette del contratto: il deficit. Leggiamo: “Per quanto riguarda le politiche sul deficit si prevede, attraverso la ridiscussione dei trattati dell’Ue e del quadro normativo principale a livello europeo, una programmazione pluriennale volta ad assicurare il finanziamento delle proposte oggetto del presente contratto attraverso il recupero di risorse derivanti dal taglio agli sprechi, la gestione del debito e un appropriato e limitato ricorso al deficit”. Più o meno lo stesso concetto ripetuto pochi giorni fa da Matto Salvini: “Stiamo facendo di tutto per rispettare il limite del 3 per cento del rapporto deficit/pil, anche se il limite del 3 per cento non è inciso nella pietra”.

  

Il leader della Lega gioca con i numeri ma presto si accorgerà che per il governo il vero tema non sarà avvicinarsi al limite del 3 per cento ma sarà riuscire a ottenere un pizzico di flessibilità in più rispetto a ciò che è stato approvato nell’ultimo Def (28 aprile 2018), quando il rapporto deficit/pil previsto per il 2019 è stato fissato allo 0,8 per cento (tra l’altro sulla base di una crescita stimata più alta, 1,6, rispetto alle nuove stime, ovvero 1,3). Senza deficit, le promesse del cambiamento possibili sono solo quelle a costo zero (in realtà anche i provvedimenti a costo zero hanno un costo: nel giro di due mesi, solo sulla base delle promesse del governo, lo spread italiano è salito di cento punti e la quota di investimenti persi dall’Italia da maggio a oggi è pari a 55 miliardi, come certificato dalle stime dell’agenzia Reuters basate su dati forniti dalla Banca centrale europea attraverso il sistema dei pagamenti transfrontalieri Target 2) oppure quelli a saldi invariati. Si possono cioè spostare risorse da una parte all’altra, si possono cambiare i nomi alle leggi, ma senza trovare miliardi di euro in più non si può fare nulla. E vale anche per le tasse: se aumenti qui e diminuisci lì, la pressione fiscale alla fine resta sempre la stessa. Nessuno nel governo può ammetterlo ma la sostenibilità economica del giocattolo gialloverde (vedi le interviste a Tria e a Salvini pubblicate a pagina quattro) dipende da una teoria difficile da accettare: il governo è credibile solo quando in economia promette di non fare quello che ha promesso. Se Salvini e Di Maio accetteranno di trasformare in virtù questo principio, il governo avrà vita lunga. Ma Di Maio e soprattutto Salvini potranno davvero accettare alla vigilia delle elezioni europee (maggio 2019) di avere una legge di Stabilità scritta più con la lingua dell’europeismo che con la lingua del sovranismo? Se la risposta è no, la parola che andrà messa a fuoco nelle prossime settimane, pensando alla vita di questo governo, non è più “se” ma è prima di tutto “quando”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.