Carolina di Monaco in un palco della Scala

Quanta vita in quei palchi

Michele Masneri

Sembra davvero aleggiare lo spirito dell’Anonimo lombardo, di quella love story così contemporanea prima delle porte Venezia rainbow, dove a una prima della Scala scocca l’amore epistolar-scaligero narrato da Arbasino. Che flash, “Nei palchi della Scala”, così si chiama la mostra, in quel museo stupendo del teatro che sembra una casa d’appuntamenti o di una zia molto simpatica, con parquet scricchiolanti, tende pompier, ritratti di Maria Callas e Renata Tebaldi in Technicolor che sembrano dei Vezzoli e testine di Strehler e diffusori di profumi fortissimi. Qui, in mostra oggi appunto tante storie sulla Scala come condominio molto abbiente di palchettisti ereditari, con i più bei nomi di Milano che dal 1778, anno di apertura, fino al 1920, anno di esproprio proletario quando la Scala diventa bene comune e “partecipato”, perdono i loro diritti e si devono abbonare come tutti. Si sa che nei palchi si faceva quasi tutto tranne che vedere lo spettacolo: così, ecco ordinanze e divieti (d’installare fornelletti, in una bolla datata 1778). Rimproveri (dell’abate Parini al giovane Alessandro Manzoni, per giocar d’azzardo nel ridotto, che era un ritrovo di gran successo, e pareva un’astuta mossa per portare i giovani a teatro, meglio dei bonus cultura odierni).

 

I palchi ogni famiglia se li arreda come vuole: generalmente consistono di “cadreghette tamburini panchette” e soprattutto specchiere per spiarsi a vicenda. Interessanti sempre sul versante voyeuristico le proprietà e i passaggi di proprietà: Cesare Beccaria papà del garantismo e nonno del Manzoni stava sovente al palco 16 di prim’ordine destro dei Belgiojoso insieme a Pietro Verri. Foscolo nel 7 a sinistra di Antonietta Fagnani Arese cioè poi l’amica risanata. Manzoni stesso nel 13 di sinistra degli Arnaboldi Carzaniga, antenati della sindaca Moratti già raffigurati in “Fratelli d’Italia”. Stendhal nel 3 a destra (“un palco alla Scala costa quanto un appartamento a Parigi”, notava quel fanatico di Milano, e non c’era ancora stato l’Expo). Il tempo cambia tutto, ma non molto: i francesi faranno togliere gli stemmi. Gli austriaci preoccupati da tutti quei sovversivi lombardi montano a un certo punto il gran lampadario (“la lumiera”) per vederci chiaro. Nel ’20 appunto l’esproprio, con conseguente omologazione di censo e d’arredo.

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