(foto LaPresse)

Alberto Arbasino, grande scrittore di mondo

Mariarosa Mancuso

E’ morto colui che sapeva passare da T. S. Eliot al Festival di Sanremo

Signora mia, ora a chi pagheremo l’obolo? Per aver scritto, appunto, “signora mia”: nani sulle spalle del gigante Alberto Arbasino. L’idea dell’obolo l’aveva buttata lì lo scrittore di Voghera, educato ma fermo, giacché trovava insensate le prestazioni intellettuali senza corrispettivo economico. In buona compagnia con Billy Wilder che si vantava: “Mai una riga se non a pagamento” (a tariffa, il regista aveva fatto l’intervistatore e pure il ballerino per signore mature).

 

Paghiamo volentieri il nostro obolo anche per scrivere un’altra volta “la gita a Chiasso”. L’invito a imparare le lingue, che sarebbero servite per sfuggire alla soffocante cultura italiana tra le due guerre. Noi che stavamo dall’altra parte – a nord della “stanga della dogana” – eravamo all’inizio perplessi, perché molto desiderosi invece di fuggire a Milano, o magari a Roma. Un po' di letture dopo (non c’era granché altro da fare, quasi come a Voghera quando Arbasino era giovanotto) la situazione si è chiarita.

 

Da una parte c’era un grande scrittore di mondo, dall’altra i tanti che scrivevano senza staccarsi dalla provincia (“puoi togliere una ragazza dalla provincia, ma non puoi togliere la provincia da una ragazza”: vale anche per i letterati). Uno che andava al cinema, andava a teatro, andava all’opera, conosceva tutti quelli che valeva la pena di conoscere, in Italia e fuori. Uno che sapeva passare da “La terra desolata” di T. S. Eliot al Festival di Sanremo. Passando per i Legnanesi, travestiti da ringhiera milanese perché all’oratorio il prete aveva vietato le presenze femminili, “se proprio volete, vestitevi voi da donna…”. Per contorno, qualche rima: “Finiscono i bronci / ma non la Bellonci” – la fondatrice del premio Strega, che Alberto Arbasino, neanche a dirlo, non ebbe mai.

 

In una cultura ostile alla leggerezza – solo la noia profonda viene scambiata per altrettanto profonda cultura, anche in quarantena non se ne trova uno che azzardi: “Leggere è divertente, fate la prova, non è una penitenza da cui uscirete migliori” – Alberto Arbasino mescolava allegramente l’alto e il basso, con la sicurezza di chi racconta i libri che davvero ha letto, i personaggi incontrati, gli spettacoli goduti. Non i risvolti di copertina, non le recensioni precompilate a base di intensità e impegno sociale, dove la letteratura si confonde con la cassa del Mezzogiorno (e se non è il meridione, sono gli operai, i precari, la condizione della donna).

 

Con “Fratelli d’Italia” (romanzo scritto e riscritto tre volte dal 1963 al 1991, per farlo sempre più bello) non c’è pericolo. Subito entra in scena un giovanotto non ancora laureato, felice proprietario di una macchina sportiva: “La MG nuova me l’hanno presa lo stesso, celeste-pervinca come i miei begli occhi. Come del resto è anche giusto: tanto, mio papà ha più di dieci milioni di franchi al Crédit Suisse, un boccon di pane non dovrebbe mancare mai”. Partono per un grand tour estivo fatto di spiagge e di amorazzi, di spettacoli, di progetti artistici più o meno velleitari, arricchiti da chiacchiere scanzonate, guai a prendersi sul serio.

 

Una bomba scagliata contro il neorealismo (se ne sentiva un gran bisogno, ma non è bastato a sradicarlo). Se quasi 1.400 pagine vi spaventano, anche in quarantena, c’è “L’ingegnere in blu”: ritratto maneggevole e irrispettoso di Carlo Emilio Gadda, passeggero spaventato dalla velocità che meditava di tirare il freno a mano della Spider. Davanti a un night club dove gli amici lo volevano trascinare chiese spaventato: “Si sarà tenuti a danzare, all’interno?”.