Il direttore del Salone del Libro di Torino, Nicola Lagioia

Quale futuro per la letteratura italiana?

Rubina Mendola

Manca un mese all'inizio del Salone del libro di Torino. All'evento hanno già aderito 310 editori. Si attendono, tra gli altri, molti romanzi. Che però non andrebbero incoraggiati 

Il romanzo si può anche non leggerlo, soprattutto se munito dei tre difetti individuati da Connolly: miseria di materiale, povertà di stile, mancanza di forma. Che cosa ha ancora da offrire il più borghese dei generi letterari? Difficile sperare che la risposta arrivi dall’industria culturale, interessata a distribuire libri come pizze, panini o piadine da asporto. La bruttezza di molte pubblicazioni ha superato ogni limite di sopportabilità e a proposito di varchi superati, “Oltre il confine” sarà il tema della trentesima edizione del Salone del Libro. A un mese dall'evento, che si terrà dal 18 al 22 maggio 2017, hanno già aderito oltre 310 editori. Il direttore Nicola Lagioia presentando la kermesse internazionale ha detto: “Dagli editori abbiamo avuto una risposta eccezionale. Non ci saranno tutti quelli dello scorso anno, ma la vera notizia è che ce ne saranno di più. Dall'horror vacui all'horror Pleni”. Con questo calembour Lagioia ha sintetizzato l’allure gioioso che circonda la sua prima edizione del Salone. Si attendono, tra gli altri, molti romanzi. Ma il romanzo non andrebbe incoraggiato, almeno non più, come ha detto Berardinelli, ma arginato, controllato, perché “se tutto è romanzo, allora nulla lo è”.

 

Allora il futuro della scrittura in Italia quale sarà, giocando col tema del Salone? Sollevare muri critici contro i cattivi romanzi o spalancare orizzonti al sottoprodotto letterario? Fra i tanti prodotti identici come panettoni in fila, c’è di tutto. I saloni del libro si prestano a rivisitazioni insolite del più ortodosso banco salumi&latticini a mo' di ipermercato con tanto di Dante, Wilde, Leopardi e Woolf 'al cartello' (“Dotto', so' 300 grammi...che faccio, lascio?"). Tra le bancarelle prosegue la lunga tradizione del nostro paese, attraverso l’ipotetica linea James e le sue propaggini proustiane e woolfiane e pasternakiane (Dostoevskij dove lo mettiamo?) fino alle più scadenti epigonie di Foster Wallace e Kerouac, o ai romanzi di plastica ‘Secondo Impero’, già bête noire dei Gouncourt cent’anni fa. Narrative e presentazioni di libri sempre più intrecciati alle digestioni, con tisane, pasticcini, colazioni e merende in libreria tra un croissant, una zeppola o un berriquocolo. La grande e piccola narrativa italiana arranca sull’ostinato pregiudizio naturalistico, e poi moralistico, del romanzo-inchiesta conoscitiva e sociale, come ‘spaccato’, assillo che continua a riproporsi immutato sotto diverse etichette (caso italiano affetto dal problema di una pratica letteraria in ritardo di quasi un secolo e ansiosa di recuperi?).

 

Sprovvisti come siamo di una tradizione nazionale capace di offrire esempio o alternativa, un Balzac o un Flaubert o una Austen, un Kafka, un Hugo, “e soffocati invece dai falsi maestri, dai falsi bei libri”, dai falsi giovani scrittori, come già fulminava Arbasino negli anni ’70 e 80’, perché spacciare l’arraffo delle mezze calze come florilegio di talenti? Grazie all’industria culturale che fa business con ogni esercizio di neofilisteismo, il menu delle operazioni stagionali è davvero grasso, tra meccanici repêchages di romanzi d’appendice francesi, poetiche del ‘riandare’, avanguardia senza lieto fine, commissariati in provincia, polpette edificanti, fino al morbo elegiaco (a causa del Proust all’italiana, deformato e frainteso) che dimentica il presente adulto per bollirsi nelle melenserie delle infanzie più bozzettistiche e nei crucci più graditi al palato delle massaie. Per dessert, le decuplicazioni di oneste galline della letteratura popolare à la Invernizio, nell’offensiva populista della letteratura di mimose intenta a raccontare emozioni intime, palpatine, rievocazioni commosse e litri di joliesse, vale a dire tutto ciò che vi è di più superficiale e di insignificante nel joli (Jean-Pierre Richard). Se accanto gli scaffali dei Mann, Gide, Flaubert e delle Austen troviamo pure gli scarti, come si tornerà a distinguere lo scrittore dal pennivendolo, e per giunta della domenica?

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