Foto Pixabay

Sintonizzatevi sull'Ingegner Gadda

Francesco Caldarola

Le “Norme” scritte per la radio di settant’anni fa. Un vaccino per le derive della tv d’oggi

Quando non c’era ancora la televisione, sessantotto anni fa giusto di questi tempi, a ottobre, la Rai firmava l’assunzione di un nuovo giornalista praticante: Carlo Emilio Gadda (foto sotto). Che poi, assunzione: il contratto era in regime di “provvisorietà semestrale che non esclude un’altra provvisorietà semestrale susseguente, e via via”, cioè a dirla male l’Ingegnere era un precario, magari facevano fare il mese di pausa tra un contratto e l’altro anche a lui, chissà.

 

Quando arriva a Roma, Gadda non è un ragazzo: ha 57 anni, ha già scritto L’Adalgisa e pubblicato in prima edizione La cognizione del dolore, gode di una buona fama ma non riesce ancora a vivere di letteratura e per questo lascia Firenze e si presenta in Via Asiago: abito blu (L’Ingegnere in blu è il titolo di un fantastico libro di Arbasino, all’epoca uno dei giovani fedelissimi che ne ammiravano l’opera e lo frequentavano), cravatta, viene assegnato al Terzo Programma da poco costituito.

 

Sessantotto anni fa, giusto a ottobre, la Rai firmava l’assunzione, semestrale, di un nuovo giornalista praticante: Carlo Emilio Gadda

Se il neoassunto Bianciardi alla Feltrinelli è uno che arriva a farsi licenziare quasi subito per scarso rendimento, Gadda è il contrario, è già più contemporaneo, ansioso, tipo da Xanax: “Maledetto, maledetto!” gridava rivolto verso l’apparecchio telefonico che squillava, uno che stando al gran ritratto che gli ha fatto Giulio Cattaneo “si spazientiva in attesa del pronto: “Dove siete? Al cesso? Rispondi, rispondi, anima della merda!”.

 

Nei cinque anni che resta in Rai Gadda unisce doti letterarie e razionalità ingegneristica, infatti lo fanno quasi subito segretario di redazione: un ruolo strategico ma ingrato, che però lui prende molto seriamente: rivede scritti, annota, corregge. A volte persino con troppo zelo di cui però, da vero paranoico, poi si pente: “Ti chiedo umilmente perdono – scrive a Leone Traverso nel 1951– se ho osato (in un’ora di impazienza non verso di te, ma verso il Terzo Programma che sempre mi muove rimproveri circa le difficoltà dei testi) spezzare o comunque contaminare la prima pagina di entratura, di apertura, del tuo ottimo Benn”.

 

E’ proprio per queste sue doti che a lui viene affidato quello che diventa poi un trattatello firmato “il Terzo Programma”, redatto a beneficio degli autori radiofonici e destinato a circolazione interna, nel senso che veniva proprio allegato ai contratti dei nuovi collaboratori: Norme per la redazione di un testo radiofonico, che è appena tornato in libreria per Adelphi (56 pp., 6 euro) con una postfazione molto completa di Mariarosa Bricchi.

 

Un libricino prezioso che non si può però derubricare a sola prescrizione deontologica: “Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la radio. La mancata osservanza di dette norme e cautele, può rendere intrasmissibile uno scritto anche se per altri aspetti eccellente” recita l’incipit. Messa così, anche se l’ha scritto Gadda, suona un po’ dura da digerire, con quell’“inderogabili” subito all’inizio.

 

Addentrandosi, però, il decalogo è difficile da non condividere ancora oggi: “La sopportabilità massima del parlato-unito in Italia è di quindici minuti. La voce unica e fusa erogata dal graticcio del radioapparecchio, in quanto non soccorsa dalla prestanza fisica, dalla gestazione o dall’atteggiamento di chi parla, annoia l’ascoltatore italiano dopo quindici minuti, quali che siano la forma o il contenuto dell’allocuzione”. Leggi, alzi gli occhi dal libro, e pensi come sarebbe bello avere un decalogo per la tv dove c’è scritto che più di due controcampi in un’intervista da tre minuti sono inutili, anche se ti sei fatta la messa in piega apposta, anche se hai quella bella cravatta alla moda, o vuoi far vedere bene la tua faccia in modo che il mondo (e i direttori, e chi concede promozioni) si ricordi di te.

 

Quasi subito segretario di redazione: rivede scritti, annota, corregge. A volte persino con troppo zelo, di cui però poi si pente

Altra regola base gaddiana: “Nel caso tipico e in certo modo esemplare di allocuzione radiofonica da cui venga presentato un autore o un gruppo di autori con cui si intenda tratteggiare il carattere di un maestro del pensiero o dell’arte (…), le testimonianze addotte (…) devono superare in estensione il commento critico, l’esposto informativo: il quadro, in altri termini, non dev’essere sopraffatto dalla cornice. L’espositore non prevalga sulla sua vittima!: è questo il memento primo e assoluto”. Vabbè, ciao proprio. Oggi vorrebbe dire quindi addio alle immagini degli artisti che si abbracciano con i loro intervistatori, addio alle domande compiaciute da un minuto e mezzo, addio alle indulgenze eccessive. Praticamente addio, cioè, a metà di quello che va in onda, non solo alla Rai, beninteso.

 

In tutto questo, a onor del vero, va detto che le Norme sono frutto del loro tempo e anche del carattere rigoroso di Gadda (“Io sono l’ingegner Gadda!”), esule a Roma dopo i traumi delle guerre. Una vita da lombardo nella Capitale, fatta solo di lavoro e cene nelle trattorie del quartiere Prati, dove inizialmente si stabilisce per essere più vicino alla redazione, prima di trasferirsi infine nel mitico condominio di via Blumensthil alla Camilluccia che ancora oggi ha una targa vicino al portone. Solo più tardi prenderà a frequentare anche il centro, quando la sua redazione verrà spostata in via delle Botteghe Oscure.

 

Gadda finisce in casa di una signora dai modi rudi, che gli preferisce l’altro inquilino, un ragioniere barese: “Ho trovato provvisoria dimora in una camera d’affitto, col solito vedovone singhiozzante (una affrosa megera, specie nelle ore mattutine) e con un cane puzzolente” scriveva in una lettera pochi mesi dopo essere stato assunto. Una situazione insostenibile che presto gli farà cambiare sistemazione, anche se le cose non miglioreranno, anzi.

 

La seconda camera in affitto, dalle parti di piazza Mazzini, ha un’altra padrona di casa vedova, come spesso accadeva in quei tempi di dopoguerra, che lo scrittore ribattezza subito “la nana demente” per via della statura. “La nana – scrive Cattaneo ne Il gran lombardo, affettuoso ritratto di quegli anni – aveva adattato ogni oggetto della casa a propria misura e Gadda era costretto per esempio a telefonare con la faccia a trenta centimetri dal pavimento”.

 

No ad “allocuzioni compiaciute”. “Il pubblico già sa che la Radio invita al microfono i ‘grandi’ e le ‘grandi’, vale a dire i competenti”

Un giorno gli diedero l’incarico di curare per il Terzo Programma un ritratto di Galileo Ferraris, fisico e ingegnere, e a lui venne in mente di andare a Torino per approfondirne la figura ma, per motivi burocratici, si vide respingere la richiesta di rimborso. Il direttore Alberto Mantelli, esperto musicologo, allora gli propose di andare comunque e di alloggiare a casa della sorella (allora niente Airbnb, si faceva così), centrando involontariamente una delle (tante) fobie di Gadda: “Non me l’avrà mica proposto per farmi sposare la sorella?”. Quello dei matrimoni imposti o suggeriti da amici o colleghi era uno dei timori ricorrenti dell’Ingegnere: quando al telefono non gli rispondeva un amico che si era convinto volesse “rifilargli” un’amante si adirava: “Non mi risponde perché sa che non voglio accontentarlo! Datemi almeno lo stipendio del direttore generale!”.

 

Da insicuro, però, veniva colto da patimenti appena gli arrivava notizia che qualche conoscente si era sposato ad una donna danarosa: “Se anch’io trovassi una signora o una signorina…”. Si infervorava anche quando raccontava di fantastici doni di nozze: “Hanno avuto in dono un frigidaire pieno di salumi, di tacchini…”. E poi, in crescendo: “Un frigidaire pieno di capretti…”, “Sembra che ci possano stare interi vitelli…”.

 

A Gadda piaceva mangiare e stando a pensione cenava nelle tante trattorie del quartiere e del centro: “Mangia nelle trattoriole fra le Botteghe Oscure e Ripetta – ricorda Arbasino nel suo libro – Si concede qualche grossa pasta da Ruschena; e Attilio Bertolucci ricorda d’averlo visto correre dietro ad un autobus con quattro enormi panettoni di San Biagio (due al prezzo di uno) davanti al Berardo di piazza Colonna”.

 

Si adirava particolarmente con i suonatori di fisarmonica e di violino che si aggiravano tra i tavoli, chiedeva ai camerieri se i piatti fossero “raccomandabili” e si agitava quando, comprensibilmente, gli rispondevano che lo erano tutti. Nel racconto dei suoi colleghi, sempre confermando la sua indole da insicuro, si accodava se gli altri ordinavano tutti una pietanza, oppure si scusava: “Io prenderei un Carpano – diceva ai commensali che avevano ordinato Martini – se non se ne hanno a male”.

 

Tornando alle Norme, ci sono passaggi inarrivabili: “Il tono accademico o dottrinale è da escludere (…). Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la ‘orazione’ è alquanto decaduta nel gusto del pubblico”.

“Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di ‘persone singole’, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di ‘pochi intimi’ – scrive, non solo tradendo la sua passione per Leibniz ma anticipando anche l’era digitale di noi tutti col naso sugli schermi – Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza”. Un passaggio, quest’ultimo, che se venisse considerato almeno in parte nelle redazioni dei programmi, dovrebbe far ripensare in toto la televisione contemporanea.

 

La voce unica, non soccorsa dalla prestanza fisica o dalla gestazione di chi parla, annoia l’ascoltatore italiano dopo quindici minuti

Di più: “E’ bene perciò che la voce si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di un’allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto”. Bum! “L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante”. E se qui potrebbe sembrare un invito alla tv del popolo, diciamo così, per stare sull’attualità, la chiusa del paragrafo, però, chiude ogni discussione: “Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio Italiana invita al microfono i ‘grandi’ e le ‘grandi’, vale a dire i competenti”.

 

Per evitare di creare un complesso di inferiorità nell’ascoltatore, prescrive l’Ingegnere nel suo piccolo trattato, è bene “in ogni evenienza astenersi dall’uso della prima persona singolare io. Il pronome io ha carattere esibitivo, autobiografante o addirittura indiscreto. Sostituire all’io il noi di timbro resocontistico-neutro, o evitare l’autocitazione”. E va bene che parliamo di settant’anni fa, ma annullare l’io equivarrebbe ad annullare tre quarti dei conduttori esistenti.

Le Norme proseguono con altre prescrizioni, tra cui spicca la famosa “Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l’affermazione più pregna di senso, il proposito più grave”: e addio a tutti i sorrisini in diretta sul “fa anche rima!”.

 

In generale, come ricorda la preziosa postfazione, il trattato non è una difesa d’ufficio dello scrivere castigato, ma riconoscimento di una tra le varietà della lingua, anche se non furono pochi i prestigiosi collaboratori della Radio che si indignarono quando se lo videro recapitare insieme al contratto.

Gadda restò alla Rai cinque anni, poi l’accrescersi degli impegni letterari lo convinse a dimettersi: nel frattempo aveva abbandonato la “nana” per una casa a Monteverde vecchio (“la triste collina”), piena a suo dire di inquilini rumorosi, e da lì a poco sarebbe arrivato il successo del Pasticciaccio, che lo avrebbe consacrato come gigante della letteratura italiana. Poco prima delle dimissioni era cambiato il direttore generale, e al suo posto era subentrato Filiberto Guala, uomo pio e benefattore: “Cosa significa questa castità, a cosa serve? Al bene dell’azienda?” salvo poi ricredersi quando questi gli garantì il suo sostegno per ottenere una buona liquidazione. Oltre alle Norme, la sua più grande impresa radiofonica (per altro non finita) furono I Luigi di Francia, che poi divennero anche un libro. Dei suoi anni in Via Asiago e alle Botteghe Oscure resta come sempre la personalità dell’uomo, che pur essendosi imposto un comportamento riservato e composto deragliava spesso in commenti sferzanti e parolacce. Salvo, come sempre, pentirsene subito: “Per carità – diceva ai suoi interlocutori per la paura che riferissero – non mi tradisca…”.

Di più su questi argomenti: