Carlo Emilio Gadda (foto LaPresse)

Gadda confidential

Marina Valensise

Un bulimico collaboratore di giornali. Ora in libreria “Divagazioni e garbuglio”, con saggi strepitosi su Manzoni, Moravia e sulla lingua

Carlo Emilio Gadda non aveva molta fiducia negli scritti estemporanei, articoli di giornale, saggi brevi, “lavorucci” come li chiamava, nati spesso dalla disperazione e di sicuro dal bisogno di pane, anche se frutto di studio e accuratissima documentazione. Sono scritti che rifulgono ora nella bella edizione a cura di Liliana Orlando che ne ha selezionato una sessantina fra quelli scritti nel corso di quarant’anni e li ha ordinati per tema (letteratura, lingua e dialetti, arte, spettacolo, tecnica e società) nell’ultimo volume (Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi, 553 pp., 26 euro) dell’opera omnia promossa da Adelphi. Eppure, nonostante l’abbondanza, la solerzia, l’impegno costante, l’inesauribile varietà degli argomenti (romanzi, poesie, scrittori contemporanei, molti francesi, autori classici come Machiavelli, poeti latini come Catullo, anche pittori in voga come De Chirico e De Pisis, questioni tecniche come i parallelogrammi, le isole di Langerhans, i pesci anadròmi, che risalgono i fiumi per fare l’amore in montagna, gli ingegneri idraulici alle prese con dighe di invaso e nuovi impianti idroelettrici, i motori a centrifuga, le ghirbe e le idrovore elettriche), Gadda restò sempre insofferente alla misura dell’elzeviro. La considerava una gabbia angusta, troppo angusta per rinchiudervi il suo multiforme, straripante, incontrollabile e generoso talento barocco. Tant’è che nel dicembre 1946 confesserà all’amico filologo Gianfranco Contini di sentirsi “nelle condizioni di un cavallo che fosse invitato a far pipì in un bicchierino di liquore”.

 

 

    

L’ingegner Gadda all’epoca viveva a Firenze e aveva superato i cinquant’anni. Da almeno venti scriveva per riviste e giornali note critiche, recensioni, piccoli saggi, che un giorno avrebbe inserito, emendato o trafugato nei suoi romanzi. Erano per lui “pezzi, idee, ventate, affioramenti”, come l’Affioramento per l’innesto in praeteritum tempus che darà vita all’Apologia manzoniana, apparsa nel 1927 su Solaria, il portentoso saggio che apre questa nuova antologia, e che andrebbe imparato a memoria come “Quel lago del ramo di Como”… A Firenze, Gadda aveva vissuto il suo tempo felice intorno agli anni Trenta, “quando Alessandro Bonsanti ed Eugenio Montale ebbero la bontà di incoraggiarmi a scrivere”, confesserà nel 1969, quando ormai era diventato uno scrittore famoso, corteggiato dai grandi editori, e aureolato dal successo. Ma in realtà quel tempo felice era stato durissimo. Gadda aveva lasciato l’impiego di ingegnere presso l’Ammonia Casale, industria di impianti per la produzione di ammoniaca sintetica, illudendosi di poter vivere della sua penna. Ma aveva rischiato di fare la fame. “L’Ambrosiano paga pochissimo, 100 lire per un articolo di 3-4 colonne” si lamentava con Bonaventura Tecchi, che pure l’aveva avvertito. Fu così che, per rispondere al bisogno impellente, aveva messo su una rete di collaborazioni volanti a riviste, giornali, periodici, settimanali. Scriveva per l’Ambrosiano, per la Gazzetta del Popolo, per il Mondo di Alessandro Bonsanti, per la rivista di poesie di Enrico Falchi, per la Fiera letteraria. Scriveva e riscriveva, riproponendo lo stesso pezzo in varie sedi, e diversificando l’offerta sino a proporsi al Risorgimento liberale, al Mattino di Roma, al Tempo. Scriveva di tutto, saggi, recensioni, note critiche, divagazioni, e “la servitù giornalistica” alla quale si sottoponeva solo in parte rispondeva alle sue esigenze profonde: “Non mi rivolgo al giornale con trascuratezza, tanto per fare: ma con il vivo desiderio di concretare qualcosa che sia giornalismo e, possibilmente, arte a un medesimo tempo”, confessava nel 1934 al direttore della Gazzetta del Popolo Ermanno Amicucci. Intanto, però, “i lavori da pane immediato” rallentavano i progetti che gli stavano più a cuore, inchiodandolo a un groviglio di impegni, foriero per uno sprovveduto “anticipista” come lui di psicosi compulsiva da “mi attacco a tutti i salvagenti”. Del resto, all’epoca non aveva alternative.

 

Nel 1946 confesserà a Contini di sentirsi “nelle condizioni di un cavallo che fosse invitato a far pipì in un bicchierino di liquore”

Nell’autunno 1945, tornato a Firenze dopo mesi da profugo a Roma, si era ritrovato nelle pesti. “Sono nella miseria, mi hanno occupato la casa con immondi bipedi astringendomi a vituperosa coabitazione… Mi hanno derubato de’ miei mobili, miseri mobili, e, in parte, de’ miei averi”, scrive a Contini il 6 ottobre 1945. E perciò continua a sfornare un articolo dopo l’altro, recensioni, critiche teatrali, spigolature sui classici, destinati alla meglio a qualche antologia, o a confluire nei romanzi a venire come La cognizione del dolore, L’Adalgisa, gli Accoppiamenti giudiziosi.

 

Nel 1950, le cose cambiano. Grazie a Falchi, Gadda viene assunto alla Rai come redattore dei programmi radio, si trasferisce a Roma e continua a scrivere saggi sparsi. Scrive per l’Approdo, per il Giovedì di Giancarlo Vigorelli, per il Giornale d’Italia, anche se si rammarica di non approdare al “magno” Corriere, avvelenato com’è dalla convinzione che a remargli contro sia proprio Montale, l’amico e sodale sin dagli anni di Firenze quando l’aveva incoraggiato a scrivere, l’uomo-musico, il basso-cantante allievo di Sivori che sognava di cantare il Boris Godunov, il poeta degli Ossi di seppia e delle Occasioni al quale Gadda aveva dedicato fraterne pagine partecipi: “Montale avvicina gli umili, e ne fa pregio e ne cava dottrina, ove il caso dimandi: il suo fiuto estroso ne ha misurato il valore, ne ha compatito la sofferenza. Artigiani, lavandaie, pescatori, contadini, fantesche. L’ho udito scherzare col povero diavolo, nel totale crollo della cenere dal bocchino di ciliegio: (trema leggermente la mano, come ai battiti d’una fraternità dolorosa). L’ho veduto interrogarli con un sorriso, nel provvisorio stare delle sue soprascarpe di gomma: o sovvenire, in una rapida luce del volto, al loro impegno o al loro impaccio. Un motto pronto, liberamente evasivo dal lebbrosario della miseria, o dal serpaio dello scàndolo. Montale non è ‘prude’. ‘Gli vizî umani’ conosce (negli altri) e, direi, indaga. Con una certa ghiottoneria. Non patisce veti interni. Quando uno o una gli urta i nervi, è lo spasso. La sua icastica abituale si alluzza allora in una epifania di trovate, a base di senape e di pepe di Cajenna. Il malumore lo shakespearizza…”. E invece niente. Montale forse sabotava e dunque addio Corriere, dove nel frattempo viene riverito un Buzzati, alias per Gadda “Kafka+Landolfi irrancidito… e noioso, e inconcludente, e bischero”, come scriverà a Falchi nell’aprile 1948, rassegnandosi ad altri quindici anni di attesa per l’invito in via Solferino “sicché un antico desiderio veniva esaudito quando ormai era spento”.

 

Erano per lui “pezzi, idee, ventate, affioramenti”. Avendo rischiato la fame, aveva messo in piedi una rete di collaborazioni

Nel 1963 Gadda infatti era diventato uno scrittore riconosciuto, premiatissimo col Viareggio per le Novelle del ducato, acclamato per il Pasticciaccio uscito nel 1957 da Garzanti, e per La cognizione del dolore, strappata da Einaudi e pubblicata in quello stesso 1963. Poteva ormai guardare con distacco agli articoli di giornali e alle produzioni alimentari, che però, come diceva lui , “escono sempre un po’ dalle rotaie, tutti estremamente curati nella scrittura e tutti molto lontano dal normale”. E infatti, basta tuffarsi a capofitto in questa antologia tentacolare, per iniziare una nuotata controcorrente nel grande mare della letteratura, seguendo la scia di un grande fra i grandi del Novecento. Esperienza corroborante per chiunque abbia conservato il gusto paradossale della lettura. Prima di essere un immenso scrittore, Gadda è un lettore compulsivo, un critico incontenibile, divertentissimo, ilare, sardonico, imprevedibile, grottesco, proprio come sarà il Gadda narratore e romanziere. E’ un amante del divagare, dell’apro parentesi, degli infiniti dettagli curiosi, insignificanti solo agli occhi dei cretini o dei distratti. E’ un mago del cesello che si diverte a infarcire di dotti esempi filologici i suoi testi per attingere a un pensiero laterale, a un sostrato inatteso, all’intuizione spiazzante come il graffio regale dello scrittore consapevole di sé, e dunque onnipotente, il quale, per essere tale sa di dover essere innanzitutto un lettore spietato, pronto a ghermire la sua preda, come il leone re della foresta s’avventa su qualsiasi animale, lince, ghepardo, fringuello, biscia, lombrico, gli si pari di fronte.

 

Eccolo allora accanirsi contro il povero Moravia, che col suo bisturi ha diviso in tre Manzoni, firmando l’introduzione ai Promessi sposi nell’edizione dei Millenni Einaudi. Gadda attacca senza pietà quel saggio infelice e pieno di pregiudizi sul cattolicesimo e, sul presunto assetto conservatore e borghese di Manzoni (Alessandro Manzoni e l’ipotesi di realismo cattolico). Alternando la cautela sorniona con l’ironia sardonica e sprezzante, muove in difesa del suo Manzoni adorato, suo maestro e modello, fonte per lui lombardo di massima ispirazione, letto decine di volte da adolescente e già oggetto della famosa Apologia manzoniana di cui s’è detto. “L’acume di Moravia la salva, codesta lettura obbligata, dal divenir pappa obbligante per il lettore particolarmente sprovveduto”, esordisce Gadda apparentemente deferente, salvo invocare subito “qualche correzione del tiro critico di Moravia” e bacchettare a dovere “il concettualmente fermo Introduttore”, con l’accusa di dogmatismo, giustizialismo e anacronismo imperdonabile: “Nasce in noi il sospetto che in alcun punto del suo scrivere, lucido come il filo di un bisturi, il concettualmente fermo Introduttore si abbandoni a premeditata voluttà: e intendiamo voluttà sistematrice: quel rigore perentorio, quella spietatezza del giudice che è sicuro della propria dizione, non altrettanto della validità delle prove addotte. Altrove l’impennata del divertissement, fra paradossale e crudele, comunque impreveduta al comune desiderio di approfondimento: e resa in parole che non sovvengono alla lettura degli inermi o dei poco predisposti, in quanto assunte nel discorso critico europeo dopo il Manzoni: (decadente oratoria). Moravia si avventa, per eccessi dialettici, contro il Manzoni quietista, contro il Manzoni presunto aedo della non-rivoluzione, cioè della paura conservatrice identificata nella ‘corruzione’ borghese della società italiana e cattolica, in un seguito di eguaglianze a = b = c = d che ci appaiono, è il meno che si possa dire, alquanto gratuite. E ciò mentre il conte Federico Confalonieri veniva sepolto vivo allo Spielberg, e per un romanzo ove la componente indipendentista è stata avvertita già prima del ’40, checché ne abbia dipoi opinato il Carducci: romanzo che dice di nuora (Spagna) perché di suocera si possa intendere (Austria)…”.

 

Si rammarica di non approdare al Corriere, avvelenato com’è dalla convinzione che a remargli contro sia l’amico Montale

Non pago, Gadda continua a infilzare Moravia, gli rimprovera l’uso dell’aggettivo “decadente” attribuito a Manzoni (“non mi piace, lo sostituirei con la qualifica ‘naturalistico’ e magari ‘deterministico’ e magari ‘drammatico’”). Gli contesta “le terminologie d’uso odierno letterario e… sociale”. Ne respinge la “premeditazione concettuale e la pianificazione dialettica”… insomma un’ecatombe. Quell’articolo, apparso nel 1960 sul Giorno, Gadda in realtà l’aveva riscritto ben tre volte, come egli stesso confesserà a Pietro Citati, giovane amico e suo mediatore nel quotidiano dell’Eni. Tre volte sia per abbreviarlo, sia per attenuare i suoi giudizi sui giudizi di Moravia “‘un po’ montati a freddo’, questi, nel loro disceverativo e rigido sistematismo antilombardo, antiborghese, antivattelapesca… per insevire contro il ‘signore’, contro l’imbelle, contro un’opera d’arte a cui ci si abbandona con la semplice e profonda gioia di chi si disseta in montagna a una fonte d’acqua chiara. Al diavolo il realismo cattolico! Si tratta di una realtà biologica e storica di rapporti e di fatti, e il catt. mo non è che uno spruzzo di cannella sulla panna frullata. Ho letto dieci volti i P.S. da ragazzo, fra i 9 e i 16: e sempre mi hanno incantato, pagina per pagina, a cominciare dalla Introduzione parodistica e insino alla morale (ambigua) della chiusura: e i preti-frati-monache-Cardinali non mi hanno mai turbato i sonni, come li turbano a Moravia, si direbbe…”.

 

E così, grazie all’ingente apparato di note di Liliana Orlando, è evidente che l’intento critico di Gadda era non solo demolitorio ma parodistico. Come se attraverso quell’articolo di giornale volesse testare le sue potenzialità di scrittore, dare fondo all’espressione dei propri umori, delle idiosincrasie, delle fobie prima di arrivare a definire i punti fermi. Non per niente, molti di questi scritti sono costellati di notazioni tecnico-scientifiche, che testimoniano l’attenzione di Gadda per gli aspetti più triviali del reale, la sua cura spasmodica per l’idioletto, per il modo di parlare di facchini, brigadieri, sarte, trippai, oculisti,

Prima di essere un immenso scrittore, Gadda è un lettore compulsivo, un critico sardonico, incontenibile, divertentissimo

agronomi, per “il frasario gergale dei pratici”, come lo chiama lui, “per l’espressione impura della marmaglia, dei tecnici, dei ragionieri”, insomma per le sfumature di linguaggio legate alle varie condizioni sociali. Il tutto però non è mai gratuito, calligrafico, fine a se stesso. Ma è il risultato di una maniacale conoscenza della storia della lingua e della filologia. Lo dimostra un altro saggio chiave, Il latino nel sangue, un articolo del 1959 scritto per L’Illustrazione italiana dall’incipit smagliante (“In apparenza, vale a dire per quanto può percepirne la facilità bamberottolesca della prima età e magari d’un’adolescenza sgambettante e garrula, e aliena da ogni applicazione logica e da ogni approfondibile nozione, in apparenza la nostra anima, la nostra parlata, il costume, la tecnica, l’economia, lo zucchero, le palle del tennis e la macchina da cucire si sono allontanate dalle disponibilità e dalle sorgenti espressive della lingua latina”), dove Gadda discetta con brio di narratore sull’immissione di voci straniere nel basso latino e nel neo-latino italiano, come pericolo sófisma, stráteugma, scisma, fántasma, “voci di accessione (sic) per lo più elegante o curule, ma talora anche popolare come periculum, periculosus, da periklao, perivklasiς = volgere, voltata: quindi correr la pista nello stadio: quindi gareggiare, rischiare, misurarsi con; quindi rischio”… e in questo suo “lavoruccio” sembra divertirsi a far risuonare la cacofonia del Pasticciaccio in cui aveva gettato il povero commissario Ingravallo…