La cognizione del Pipita. Higuain e l'ingegner Gadda
L'attaccante non ha esaltato San Siro come il Milan sperava e dopo mezza stagione saluta. Storia di un amore mai nato spiegata con Carlo Emilio Gadda
Doveva essere il nuovo leader della rinascita del Milan, il centravanti capace di risollevare le sorti rossonere a suon di gol. Non è andata così. Gonzalo Higuain dopo cinque mesi saluta Milano e l'Italia per andarsene altrove, al Chelsea allenato da quel Maurizio Sarri che lo aveva guidato a Napoli nella sua migliore stagione sotto il Vesuvio.
Nel divertissement che segue Gino Cervi ha "intervistato" Carlo Emilio Gadda a proposito dell'affair Higuain. Le risposte sono prese da La cognizione del dolore, con qualche minimo adattamento.
Non è stato per niente facile impetrare un’intervista all’Ingegnere, che come tutti sanno è uomo la cui timidezza sconfina nella paranoia. Però ce l’abbiamo fatta, anche se non sappiamo come. Tra un neologismo e un borborigmo, ci ha concesso un poco del suo tempo algebrico e politecnico, e qualche non banale rivelazione sul tema che in queste ore percuote le ore della Pastrufazio stendahliana, ovvero rosso e nera.
Ingegner Gadda, lei, il Gonzalo lo conosce bene?
Ma cos’è la conoscenza se la secreta perplessità e l’orgoglio secreto affiorano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide? E le figurazioni non valide sono da negare e da respingere, come specie falsa di denaro? Oppure conoscenza è cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo lezzo di meretrice? Oppure attuffarla invece nella rancura e nello spregio come in una pozza di scrementi, negare, negare: chi sia Signore e Principe nel giardino della propria anima. Chiuse torri si levano contro il vento…
Suvvia Ingegnere, non filosofeggi, lo sanno tutti che lei e il Gonzalo siete intimi da lunghissimo tempo, perlomeno da un’ottantina d’anni. C’è persino qualche malalingua che dice che ci sia una stretta affinità biografica tra lei e don Gonzalo, che siate addirittura la stessa persona…
Ma l’andare nella rancura è sterile passo, negare vane immagini, le più volte, significa negare se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio, a certi momenti, è lacerare la possibilità: come si lacera un foglio inturpato leggendovi scrittura di bugìe.
Ma allora ci aiuti lei a dipanare le opache menzogne che vediamo scritte in queste ore sui fogli, analogici e digitali, intorno alla più autentiche e incontrovertibili ragioni che abitano il cuore e la mente di don Gonzalo…
Mi creda, lasci da parte le dicerie. Io quel poco che so del Gonzalo, me lo ha riportato quel buon peone del Rino, il factotum calabrese di villa Pirobutirro. Sa, quella bella villa a Carnago, nel Maradagàl, di recente comprata da quegli americani, quelli del fondo d’investimento, come si chiamano…, ossignur che non mi ricordo più i nomi… Ma sì, quelli lì… Mi aiuti, lei: pensi che poco fa ne parlavo al telefono proprio col mio amico Arbasino… Ecco: il fondo Eliotgabalo. Insomma, dicevo di quel peone del Rino: bravo, onesto, un poco gnucco in verità, ma secondo me, in fondo, c’è da fidarsi se…
E cosa le raccontava dunque il Rino del Gonzalo?
Ma, guardi, io le riporto quel che mi ha detto… Poi veda lei se scriverlo, basta che poi non salti fuori come al solito che me lo sono inventato io…
Le prometto che virgolettiamo tutto, così si capisce che chi parla è il peone…
Be’, oddio, ci vorrebbe un traduttore per capire quel che dice il Rino… Ma, insomma, il senso era più o meno questo. Pare che il Gonzalo, dentro nel ventre, abbia tutti e sette i peccati capitali, come sette serpenti: che lo rimordono e lo divorano dal di dentro dalla mattina alla sera: e perfin di notte, nel sonno. Che dorme, la mattina, fino alle otto, e anche otto e mezza: e si fa portare a letto il caffè… e anche i giornali; per poi leggerli e poi beverlo fuori a poco a poco, sia il caffè sia i giornali, allungato nel letto come una vacca: (così dice il peone): e tiene anche qualche libro desoravìa del cifone, per leggere di tanto in tanto anche quello, come non gli bastasse i giornali, ma in letto. Mentre i compagni di squadra, alle otto, son già dietro a tre ore a sudare, e bisogna rifilare il filo alla falce (così dice sempre il peone, a cui piacciono le metafore).
Si dice poi che sia anche vorace, e avido di cibo e di vino…
Sì, anche queste sono voci che girano. E il Rino peone non ha smentito. Dice anche che un giorno stava fosse stato per morire in seguito alla ingestione d’un riccio, altri sostenevano un granchio, una specie di scorpione marino ma di colore, anziché nero, scarlatto, e con quattro baffi, scarlatti pure essi, e lunghissimi, come quattro spilloni da signora, due per parte, oltre alle mandibole, in forma di zanche, e assai pericolose loro pure; qualcuno favoleggiava addirittura di un pesce-spada o pescespilla; eh, già! piccolo, appena nato; ch’egli avrebbe deglutito intero (bollitolo appena quanto quanto, ma altri dicevano crudo), dalla parte della testa, ossia della spada: o spilla. Che la coda poi gli scodinzolò a lungo fuor dalla bocca, come una seconda lingua che non riuscisse più a ritirare, che quasi quasi lo soffocava.
E come andò a finire?
Andò a finire che le persone colte si rifiutarono di prestar fede a simili barocche fandonie: escluso senz’altro sia l’ittide che l’echinoderma, ritennero di dover identificare l’orroroso crostaceo in una aragosta del Fuerte del Rey, stazione atlantica assai nota in tutto il paese per l’allevamento appunto delle aragoste. Por suerte qualche notizia della sistematica d’Aristotele era loro arrivata ad orecchio. La quasi ferale aragosta raggiungeva le dimensioni di un neonato umano: ed egli, con lo schiaccianoci, ed appoggiando forte, più forte!, i due gomiti in sulla tavola, ne aveva ferocemente stritolato le branche, color corallo com’erano, e toltone fuora il meglio, con occhi stralucidi dalla concupiscenza, e poi di più in più sempre più strabici in dentro, inquantoché puntati sulla preda, a cui accostava, papillando bramosamente dalle narici, la ventosa oscena di quella bocca!, viscere immondo che aveva anticipatamente estroflesso a properare incontro l’agognata voluttà. Poi, satollo, dimesso lo schiaccianoci, aveva trincato.
Ma quindi non hanno tutti torti quelli che hanno smesso di chiamarlo Pipita per ribattezzarlo Pinguita…
Eh, veda lei. Io le posso dire, che sempre a quanto mi ha riferito quel buon peone del Rino, ovvero come dalle cucine di Villa Pirobutirro, il Gonzalo non avesse cibato se non aragoste in salsa tartara, merlani in bianco con fiotti di majonese, o due o tre volte il peje-rey; e piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle, dolci, ma non troppo, e piccolette, ma di già un po’ sfatte, inficiate, queste, nel sugo stesso venutone da quegli stessi piccioni: farciti alla lor volta, secondo una ricetta andalusa, con l’origano, la salvia, il basilico, il timo, il rosmarino, il mentastro, e pimiento, zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo, zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano, ed altre patate ancora, di dentro, quasiché non bastassero quelle altre messe a contorno, cioè di fuori del deretano del piccione; che erano quasi divenute una seconda polpa anche loro, tanto vi si erano incorporate, nel deretano: come se l’uccello, una volta arrostito, avesse acquistato dei visceri più confacenti alla sua nuova situazione di pollo arrosto, ma più piccolo e grasso, del pollo, perché era invece un piccione. Ed erano, anche queste patate di dentro, come del resto quelle di fuori, estremamente farinose in un primo tatto della sua lingua, dove però non appena ve le cucchiarasse, dacché il cucchiaio vi doveva adibire, il lurco, le si sdilinquivano subito in un’unica pasta tutt’insieme con il loro involto carnoso, cioè l’evacuato e rinfarcito animale, d’un sapore generale di rosmarino, o, a farci caso, di basilico, che dava però il passo ben presto, e poi del tutto partita vinta, a quel fuoco dannato del pepe rosso. Poiché maciullava tutto in una volta, cioè piccioni e patate e cervelli e lardelli e pepe e chiodi (di garofano), il porco, innaffiandoli poi, che non erano neanche arrivati in fondo, coi vini prelibati della regione preandina, e i pesci invece, e la ragusta, ammappelo!, quelli coi bianchi secchi, limpidissimi, da ventidue e fino ventotto centavos, del Nevado, o del Cerro Pequeño.
Ma oltre a questa avidità di cibo, alcuni sostengono fosse di animo alquanto gramo anche co’ sodali…
I ragazzi, poi, sembrava addirittura che li avesse in odio. Una severità cupa gli si metteva sulla faccia tutte le volte che per giuoco scambiava il pallone col Rivera del Bosforo, o col Kessie del Narcissus, per non parlar del Borini. Un giorno, in cui era particolarmente accorato il Rino mi riferì poi che era solito accanirsi – per quanto, date le circostanze, meglio sarebbe dire aggattirsi – nei confronti del gattone condominiale di Villa Pirobutirro, il Gigio. Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo, dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso, egli precipitò più volte quel povero gattone del Gigio dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E il povero bestiolone, che di già di per sé non rivelava sempre un’aria pronta e sveglia, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni volta! come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall’essere eterno; ma, in quanto gattone, poco dopo morì, con occhi velati d’una irrevocabile tristezza, immalinconito da quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte.
Insomma, mi par di capire, che a Pastrufazio l’opera di don Gonzalo Pirobutirro, detto Pipita e poi Pinguita, non poteva che rimanere incompiuta, del resto proprio come gran parte dei suoi romanzi…
Guardi, secondo me era una storia segnata fin dall’inizio. O se non dall’inizio almeno dallo scorso novembre. Come ho già avuto modo di spiegare in una mia celebre nota le pere butirro, spiccate a metà ottobre, maturano repentinamente, nel corso di una notte, tra il 2 e il 7 novembre. E veda un po’ lei quando si è giocata il fatale incontro tra i cacciaviti e i gobbi, in cui il Gonzalo ha inscenato l’isteria del ripudiato, del frutto ormai tócco scartato dalla cavagna? Era l’11 novembre e il poverocristo era ormai frollo da qualche giorno. E da quel mo’ Pastrufazio non poté a meno di defecarlo. Ma ora basta, ne abbiamo parlato fin troppo, mi lasci nell’ombra, per favore…
La prego, ancora una battuta, una conclusione…
Lo hidalgo Higuaino, forse, era a negare se stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro.
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