Guido Guidi, Farnsworth House, Centre Canadien d'Architecture 2000

Attenti a quei due

Michele Masneri

Relazione complicata quella tra committente e architetto. Può andare bene, oppure malissimo. Il caso di Mies van der Rohe e la dottoressa Farnsworth

Relazione complicata: quella tra committente e architetto si sa che è una delle più gustose, anche perché almeno tra grandi opere novecentesche sono in ballo personalità e caratteri non minimali. Così, da Tomaso Buzzi che a Sabaudia prende alla lettera Lily Volpi (e il telegramma d’epoca “faites-moi une petite folie neoclassique”, e verrà eseguita, avoja), agli Hearst del castello di San Simeon, nella California più drammatica, dove il tycoon editoriale dell’epoca, ispiratore del “Quarto potere” d’Orson Welles, commissiona quel sinistro maniero all’architetta Julia Morgan, prima architetta donna di California, probabilmente lesbica (e lì, tra lei e l’uomo più potente dei suoi tempi, convivenza, libri, e ipotesi suggestive).

 

Può andare tutto benissimo, anche con “threesome” intellettuali idilliaci: come Gio Ponti e i coniugi Planchart nella celebre villa di costoro a Caracas (secondo Vitruvio, il grande teorico della architettura dell’antica Roma, “il cliente è il padre dell’architettura e la madre è l’architetto”, scrive Ponti in una delle 500 lettere che si scriverà coi Planchart, committenti ideali, assidui lettori di Domus, con cui progetta per via epistolare perfino i servizi di piatti (ma lei, alla fine: la prego, almeno le lenzuola me le lasci comprare al negozio, come tutti). Un tipico disastro è invece quello della Farnsworth House (1951), la celebre casa metallica bianca di Ludwig Mies van der Rohe costruita nei boschi di Plano, nei dintorni di Chicago, per la dottoressa Edith Farnsworth, brillante nefrologa e femme savante conosciuta da Mies a un party. Lei gli chiede subito una casa top, anche se forse nell’archistar fuggita dalla Germania nazista ella vorrebbe più d’un progettista. Presa dall’entusiasmo lei compra il terreno dagli editori del Chicago Tribune, poi devono aspettare che le muoia una zia Farnsworth perché non ci son più soldi. Subito tante grane, con equivoci bestiali, e costi che come spesso succede lievitano (da 58 mila a 74 mila dollari), finendo pure in tribunale. Mies vincerà la causa, ma sarà sottoposto a damnatio memoriae da parte della stampa americana, per aver distrutto il significato di villa americana, comprensibile se pensiamo che siamo pre-Mad Men, tra le passamanerie e le mogliettine che sognano Norman Rockwell.

 

Tutta la storia si trova in “My Farnsworth. Viaggio alla scoperta di una casa per due”, di Orazio Carpenzano e Cherubino Gambardella (edizioni Quodlibet). Pare, scrive Gambardella, che la Farnsworth avesse scelto Mies perché era quello che costava meno dei tre architetti più famosi del mondo (gli altri due erano Le Corbusier e Frank Lloyd Wright). O forse per affinità culturali. “Altri ancora paventano più scabrosi retroscena”, scrive Gambardella, che ha guidato un gruppo di suoi dottorandi alla scoperta di questa leggendaria casa, cercando di immaginare come sarebbe stata la casa voluta dall’una (più tranquilla e comoda) e dall’altro (più estrema, una scatola totalmente vetrata, col tetto trasparente). I due sbroccheranno, come sempre nelle coppie, su un dettaglio, i tendaggi che Mies vorrebbe a coprire le vetrate, mentre lei si lamenta che la casa manca di intimità, e le fa paura che si veda dentro. Nel 1968 l’apice, il comune le espropria un pezzo della proprietà per farci passare un’autostrada, a quel punto non ne può più, vende tutto e si trasferisce in Toscana dove muore nel ’77 dopo aver tradotto molto Montale e Quasimodo.

   

Mies invece si era già disamorato del progetto già da tempo, anche perché nel frattempo lo scaltro assistente Philip Johnson gli aveva copiato velocemente l’idea e costruito in un battibaleno la sua Glass House identica: ci si fa le foto con Andy Warhol e spacca. Ma lui è avvantaggiato, costruendo una casa tutta per sé, senza committenti tra i piedi.

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