Il borghese esagerato

Michele Masneri

Un libro e una mostra per Riccardo Gualino. Gli affari, la ricchezza, il cinema, il collezionismo. La vita come un romanzo di Fitzgerald

Era cominciata l’anno scorso col libro di Giorgio Caponetti “Il grande Gualino. Vita e avventure di un uomo del Novecento” (Utet), è proseguita fino a domenica scorsa con la grande mostra “I mondi di Riccardo Gualino” a Torino. La storia di Gualino, tycoon ottocentesco e fitzgeraldiano, incredibilmente non è ancora stata portata al cinema o su Netflix: eppure è una saga pre-Agnelli (e anche più leggendaria) fra trionfi, rovesci e grandi collezioni che corre parallela alla storia d’Italia.

 

Figlio della buona borghesia piemontese rigorosamente massonica, Gualino comincia a scalpitare a fine Ottocento, quando intuisce che il futuro saranno le città – acquisisce allora enormi foreste per mettere su un grande business di legname, con ferrovie che smerciano pali e traversine in tutta Europa, e cementifici per tirare su palazzi a gentrificare l’Europa. Fa gli Champs Elysées a Parigi, e sta per fare una grandiosa edificazione a San Pietroburgo quando scoppia la Rivoluzione d’ottobre. Perde tutto, torna a Torino, si butta sulla navigazione: apre sul Mississippi con i battelli a vapore e poi la Snia, società di navigazione italoamericana, che commercia carbone di qua e di là dall’Atlantico (diventerà poi Snia-Viscosa quando si inventerà re del sintetico appunto con la viscosa, materiale povero che lo farà ricchissimo). Parabola molto più americana che italiana, diventa in breve uno degli uomini più in vista d’Europa. Due volte nella polvere, due volte sull’altare, con un secondo crack nel crollo globale del ‘29, e poi un altro boom con la ricostruzione e il cinema dopo la Seconda guerra mondiale.

 

E il fascismo: Mussolini che lo detesta lo manda al confino a Lipari, con l’amico Curzio Malaparte – direttore anche della Stampa di cui Gualino è azionista; nessuno dei due sta tanto simpatico al senatore Agnelli, che forse ha avuto un ruolo attivo nella cacciata di entrambi: uno gli insidiava la leadership industriale, l’altro gli insidiava la nuora, mamma dell’Avvocato. Tutti e due si troveranno benissimo comunque alle Eolie: Malaparte prende idee dalla chiesa di Lipari per il design della casa di Capri, e rientra nel ’34: Gualino torna ancor prima grazie alle connessioni con la ancora per poco regina Maria José, ma nel frattempo in meno di un anno scrive quattro libri, tra cui un romanzo sulla crisi del ’29, e l’autobiografia “Frammenti di vita” che diventa subito bestseller Mondadori.

 

Si trasferisce a Parigi, poi a Portofino a villa Altachiara (quella della contessa Agusta ma già dei Carnarvon scopritori di Tutankamon e dunque perseguitati dalla iella, possessori anche di Highclere Castle, dove si gira Downton Abbey). Infine a Roma, ai Parioli, pronto per cavalcare il boom nascente di Cinecittà: fonda la Lux Film (con scaltro business model verticale che produce e distribuisce nei Lux cinema in giro per l’Italia) con cui fa tutti i film più importanti: “Riso amaro” (1949), “Senso” (1954) e “I soliti ignoti” (1958). Nel frattempo, ottiene il brevetto per l’Italia del pvc, la plastica del boom.

 

In mezzo, la grande attività di collezionista forsennato, insieme alla moglie-cugina Cesarina: che aveva sposato diciottenne (e molto liquida) conquistandola con un libro di sue liriche; con lei mette su un collezionismo larger than life forse imparato dai Guggenheim che frequenta a New York; fa costruire dimore e castelli alle migliori archistar dell’epoca e li farcisce di capolavori, come si è visto nella mostra torinese chiusa domenica scorsa e quasi impraticabile per code di torinesi assetati di miti identitari pre e post Avvocato (nei giorni della fusione con Peugeot). Ecco Botticelli, Duccio da Boninsegna, Veronese, Manet, Monet, Casorati (che gli fa i ritratti): la mostra, ai Musei Reali, era in collaborazione con la Banca d’Italia, che si prese tanti quadri di Gualino all’epoca del crack, per rientrare dei finanziamenti.