La creazione della plastica

Michele Masneri

Da utile a cool, bella ed eterna. Ricordate Gino Bramieri? Quando tutto divenne e mo, e mo… moplen

Chissà cosa direbbe della plastic tax Riccardo Gualino, il leggendario imprenditore-mecenate ottocentesco che dopo aver messo a ferro e fuoco l’Europa con le sue imprese si era buttato sul sintetico. Un giorno appoggiò sul tavolo riunioni della Snia a Palazzo Lascaris a Torino (leggendaria residenza) due batuffoli bianchi. Allo stupore dei suoi rispose che quel “rayon” rappresentava il futuro dell’industria tessile e preannunciava colossali investimenti che mantenne. Nascevano le fibre sintetiche, la viscosa (e la sua Snia, società di navigazione italo americana, con cui importava il carbone in Italia, divenne il primo produttore del mondo). Si dedicherà poi al pvc e al linoleum. A ottant’anni si innamorò del cloruro di vinile: era il Dopoguerra, e la plastica avvolse come un delizioso packaging il boom industriale-identitario italiano.


Il polipropilene diventa mainstream grazie al tormentone di Gino Bramieri, che sfoderava stoviglie, spremiagrumi e un jingle 


Agli inizi erano plastiche povere ma belle. Poi venne l’estetica. “C’era stata l’invenzione del poliproplilene o Moplen, che valse il Nobel per la chimica a Giulio Natta”, racconta al Foglio Renato De Fusco, storico dell’architettura e autore di quello che è il manuale di riferimento del settore, la “Storia del Design” longseller di Laterza. Il polipropilene poi assurse al mainstream col tormentone di Gino Bramieri che accompagnava la grande invasione di oggetti plastici domestici: stoviglie, accessori, giocattoli, spremiagrumi e un jingle per casalinghe non ancora disperate (“E mo’? E mo’ e mo’! Moplen!… Ma signora, guardi bene che sia fatto di Moplen!”).

 

Un altro chimico fu però responsabile della seconda fase del boom, quella cool. “Si chiamava Giulio Castelli e nel 1949, settant’anni fa, fondava la Kartell. Fin dall’inizio l’azienda opera a Milano, incentrando la produzione dei propri articoli sulla ricerca tecnologica e sul design”, dice De Fusco. “Era mia intenzione produrre oggetti che avessero caratteristiche innovative, intese come applicazione di nuove tecnologie produttive, rivolte all’economia del materiale e all’efficienza del processo”, diceva l’ingegnere industriale Giulio Castelli. In poco tempo l’azienda comincia a produrre casalinghi sempre più sofisticati, con l’idea che la plastica possa dar vita a oggetti bellissimi: designer come Gino Colombini si scatenano a razziare Compassi d’oro: è la fase dell’alessizzazione dei casalinghi; l’umile secchio per gli strofinacci prende il compasso nel 1954. L’oggetto domestico viene erotizzato. Un terzo chimico insospettabile tesseva le lodi della plastica materia, era Primo Levi. “Flessibile, leggero, impermeabile” ma “purtroppo anche incorruttibile”, scriveva, ispirato, a proposito del polietilene. Possiamo pensare al Padre Eterno, scriveva Levi, come a un “maestro di polimerizzazioni” (ma erano gli anni di Papa Luciani, secondo cui Dio era soprattutto mamma).


Se la bottiglietta d’acqua è il male, l’abat-jour di Philippe Starck per Flos del medesimo materiale sarà ancora socialmente accettabile? 


La plastica, a partire da e forse per, questa connotazione erotico-femminile, è vista con entusiasmo ma anche con sospetto. Come il bacio a occhi aperti delle dive del cinema: sempre sinonimo di retropensiero. “In Italia, a parte il Nobel a Giulio Natta, dal punto di vista scientifico, il discorso sulle plastiche è meno sviluppato che altrove. Si pensa sempre che la plastica abbia qualcosa di peccaminoso”, riflette De Fusco. Forse proprio per la bellezza sinuosa del prodotto, a cui non si era abituati. “In tutto il mondo si iniziano a fare utensili di plastica funzionali, ma in Italia la differenza è che devono essere anche belli”, continua. “L’Italia è stata una dei protagonisti del boom della plastica, e senza la plastica la ripresa industriale del Dopoguerra non sarebbe stata la stessa. La specificità è che abbiamo interpretato questo materiale con più creatività rispetto agli altri”, dice invece Joseph Grima, anglo-italiano direttore del nuovo Museo del design alla Triennale di Milano.

 

La Kartell rivoluziona il settore grazie al genio femminile, come si vede nella mostra a Milano alla Galleria Tommaso Calabro: “L’amore per il progetto. Figure ibride tra architettura, design, pittura e scultura”, dove risplende il talento visuale e industriale di Anna Castelli Ferrieri, figura mitica di architetta moglie di Castelli, direttrice artistica della Kartell, inventrice di arredi plastici con materiali super innovativi come il polipropilene, il poliuretano e la resina. Realizza una rivoluzionaria seggiolina impilabile, la 4870, la prima completamente di plastica, che aveva la caratteristica di essere facilmente sovrapponibile con altre sedie dello stesso modello. Ma è con la 4970/84 del 1967 che si realizza il pride della plastica, che non si vergogna più di sé: cioè la serie di mobili tondeggianti da astronave che tutti abbiamo o vorremmo in casa. Bianche o rosse o nere, ma ultimamente anche dorate in edizioni celebrative, erano cassettiere predestinate a luoghi umili: sgabuzzini, bagni, sottoscala: destinate a raccogliere pettini o matite, residui della vita quotidiana. Ma la plastica non ci sta alla segregazione, e grazie al trattamento Castelli Ferrieri questi mobiletti sexy invadono improvvisamente la casa e l’ufficio (grazie alle proprietà dell’Abs, una speciale plastica, possono essere impilati e ricomposti). Sono in catalogo da cinquant’anni.

 

Ma non c’è solo Kartell, che è “sinonimo stesso di plastica”, dice Grima. “Una delle aziende più sperimentali è stata Gufram, che produceva sedute avveniristiche come il Pratone” (strana specie di zerbinone verde su cui buttarsi, progetto di Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso del 1971, oggi in Triennale e in molti musei del mondo). Con la plastica si realizzava il materialismo storico: è la struttura che crea la sovrastruttura: “Molta della creatività di quegli anni derivava proprio dallo sperimentare nuovi materiali. Il materiale permetteva di studiare nuovi modi di sedersi, e insieme di ripensare oggetti classici”. Prima della plastica infatti le case italiane erano fatte di interni fantozziani, di lugubri trumeau nei migliori dei casi antichi, più spesso finti, del salotto “in massello” o “in noce nazionale”. Del Luigi XVI che poi la generazione successiva sfotterà tipo con la sediolona Proust di Alessandro Mendini.

 

Gli italiani scoprono la plastica insieme alla lotta di classe: la plastica diventa preziosa e, come l’arte contemporanea, diventa incomprensibile e padronale. Fantozzi, che a casa ha il finto antico e il vaso cinese, non sa come sedersi sulla poltrona dirigenziale “Sacco”, (design Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro, prodotta da Zanotta nel 1968 ripiena di rivoluzionarie palline di polistirolo). “La plastica divenne un simbolo di liberazione”, continua Grima, “liberazione dalla formalità del design classico a cui eravamo abituati. Libertà non solo di trovare nuove forme, ma anche di muoversi, di abitare in una maniera completamente diversa, nello spazio domestico”. Nel periodo della Seconda guerra mondiale la sperimentazione era andata avanti anche sul “vecchio” legno, che “pure aveva una sua duttilità, e costi più bassi rispetto ad altri materiali. Nasce il laminato”, dice Grima, e un pensiero affettuoso corre alla serie Quaderna di Cassina, direttamente dai sogni astrusi del radical design (anche questa classicone ancora in catalogo). “Però la plastica ha un grado di libertà completamente diverso. Oltre a enormi vantaggi di costo, perché il processo è molto più automatizzabile”.

Un chimico passò alla seconda fase del boom: “Si chiamava Giulio Castelli e nel 1949, settant’anni fa, fondava Kartell”

 

 

La plastica sembra insomma fatta apposta per applicarsi all’estro italico multiforme. “Non solo dei designer ma anche dei produttori”; dice Grima. “Degli artigiani e dei distretti che hanno colto le potenzialità di questi nuovi materiali”. Così oggi è normale vagheggiare calcolatrici Olivetti d’epoca di gomma come i nostri nonni facevano con bronzetti e acquerelli. “Sì, direi che un buon cinquanta per cento del nuovo museo della Triennale sono pezzi in plastica”, continua Grima. A Napoli c’è proprio un museo apposito per gli oggetti di plastica, il Plart, “un museo, un centro di ricerca e di restauro, un’organizzazione didattica, una struttura espositiva per la promozione artistica delle materie plastiche”, dice De Fusco. La collezione è costituita da due nuclei: la fase delle origini, dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla fine degli anni Quaranta del Novecento, manufatti artistici per lo più anonimi, risalenti all’epoca oscura delle plastiche che non osavano dire il loro nome; e una seconda parte formata da oggetti, complementi d’arredo e vere e proprie opere d’arte, a partire dagli anni Settanta del Novecento, su cui è più facile e riscontrabile il valore storico-artistico. Il Louvre della plastica accoglie numi tutelari del sintetico come Lucio Fontana, Enrico Baj, Tony Cragg, Haim Steinbach combinate alle celebri sedute di Verner Panton, Peter Ghyczy, Eero Arnio, Ugo La Pietra, Michele De Lucchi, Gaetano Pesce. E naturalmente l’immancabile pratone verde.

 

La plastica insomma è nobile, e tiene nel tempo. Anche come quotazioni, come sa chi abbia raccolto negli ultimi anni il lamento di antiquari e eredi per un settore, l’antico appunto, che ormai non vuole più nessuno, mentre il design raggiunge ovunque cifre incredibili che ne riassumono la funzione e la desiderabilità signorile; anche nel romanzo “Il Colibrì” di Sandro Veronesi, i figli di una coppia molto architettonica scoprono che le vagonate di design accumulate negli anni dai loro genitori non vanno gettate nella differenziata, ma valgono piuttosto un sacco di soldi (nello specifico, i genitori bazzicavano il giro dell’architettura radicale di Superstudio, cantori supremi della plastica, esploratori di possibilità tattili ed estetiche; il Pratone è sempre roba loro).

 

Però alla fine si pone il tema. Nell’epoca dello stigma sintetico, quando l’orrore per il polimero sembra aver sostituito e inglobato tutti gli spauracchi ambientalisti (nucleare-ozono-riscaldamento globale), che fare? Se la bottiglietta d’acqua è il male, se la forchetta usa e getta genera , l’abat jour di Philippe Starck del medesimo materiale sarà ancora socialmente accettabile? O bisognerà ritirar fuori velocemente il tavolo fratino? (Il fratino, per i più piccini, era un tavolo lungo e stretto, di norma seicentesco, che era all’apice della catena alimentare dell’arredamento. Era il sogno di ogni lettore di AD, non 200 anni fa, ancora negli anni Novanta. Poteva costare come un monolocale. Era un’epoca in cui nelle famiglie dabbene del resto si sapeva distinguere tra “sei” e “sette”, non intendendo iPhone ma secoli e relativi stili di arredi in legno).


“La plastica divenne un simbolo di liberazione dalla formalità del design classico a cui eravamo abituati”. Cambia lo spazio domestico 


Ma in quest’epoca incerta, come comportarsi? Tra plastica da tenere e manutenere anche in attesa di rivalutazioni, e quella che invece vorremmo che scomparisse da un momento all’altro (e invece riappare eterna dal cassonetto olezzante)? “Bisogna distinguere: c’è la plastica di uso massiccio, la plastica della bruttezza, quella degli oggetti orrendi, penso a certe sedie da giardino costruite in milioni di esemplari”, riflette De Fusco. “La copia e il brutto vanno di sicuro eliminati. Bisogna però salvare quella plastica che è stata toccata dalla mano del designer che l’ha nobilitata”. Siamo dunque nel campo della discriminazione in base a precisi attributi fisici. Siamo al plastic shaming. “Oggi non si può neanche immaginare il design senza la plastica”, dice Grima. “E tuttavia i produttori, con cui parlo costantemente, sono molto preoccupati. Devono eliminarla? Devono renderla completamente riciclabile?”. “Quello che è certo è che gli estremi sono sempre pericolosi. Siamo passati dalla dipendenza completa dalla plastica, materiale miracoloso che diamo per scontato, all’abolizionismo, a volerla eliminare del tutto. E’ un atteggiamento altrettanto pericoloso”, dice il direttore del museo del design.

 

In mezzo, il male oscuro: il monouso. “Oggetti che usiamo per pochi secondi e dureranno per sempre. Non è un problema di materiale, ma di distorsione di mercato”, dice Grima. “Il prezzo degli oggetti viene scorporato dal costo del loro smaltimento, che ricadrà sulle generazioni future. Semplicemente, ci pare conveniente comprare piatti e forchette e packaging usa e getta perché è conveniente produrli. Ma è una distorsione del mercato: non può essere un problema dei nostri nipoti se i piatti di plastica costano zero da produrre e poi durano per sempre. Il monouso è come le sigarette: il loro prezzo deve includere il costo futuro sulla collettività”. “Non è un problema di materiale, ma di pigrizia collettiva” continua Grima. Al mondo del design anche la plastic tax non fa paura. “Se aumenta il prezzo di uno o due euro al chilo, per un oggetto che ne costa trecento, non cambia molto”, dice il curatore, e ha sicuramente ragione. Anche se per le povere forchette di plastica, per i tragici bicchieri di bibite e feste povere – insomma per questo design spontaneo e senza nome, schifato da tutti – è la condanna a morte. Piatti e forchette (che si piegano subito, sciak, mentre il piatto vola nel vento) scompariranno già per legge entro il 2021, e saranno sottoposti a damnatio memoriae in un mondo prossimo venturo di borracce elegantissime d’alluminio. Si tratta di accelerare la loro dipartita. Ma già non si può che provare per loro, come per i brutti e cattivi di un film, una straziante solidarietà mista a nostalgia.

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