Foto Unsplash

Il cortocircuito delle tasse ambientali

Chicco Testa

O servono solo a fare cassa, o non producono gettito se il consumatore o l’impresa assumono abitudini di consumo più virtuose. Le conseguenze negative degli incentivi alle rinnovabili. Spunti per una politica di riduzione delle emissioni

Fra i lettori di questo giornale vi è probabilmente un discreto numero se non di “negazionisti” (parola orribile!) certamente di scettici di fronte all’esplosione mediatica della questione climatica. Ora, lasciamo perdere la domanda relativa all’attendibilità delle previsioni climatiche per il nostro pianeta. Chi vuole farsi un’idea precisa e documentata può leggersi l’Economist di qualche settimana fa sia per la parte più politica, sia per la parte di ricostruzione del dibattito scientifico nel merito, ivi comprese questioni che ancora rimangono aperte e che ci segnalano che non ci troviamo in presenza di una scienza esatta, ma di studi con un discreto livello di incertezza.

 

Ma il punto non è questo. Il punto è che l’Europa ha deciso di fare suoi gli obbiettivi di decarbonizzazione dell’economia del continente. Con obiettivi molto sfidanti. Riduzione delle emissioni del 50 per cento entro il 2040 e neutralità, cioè saldo netto pari a zero, nel 2050. Se si pensa che ancora l’anno scorso è stato registrato il picco massimo delle emissioni e diversi studi ipotizzano che esso non rallenterà fino e ben oltre il 2020, si capisce la rilevanza dell’impegno. Che poi sia raggiungibile è un altro paio di maniche. Fatto sta che Ursula von der Leyen già dice che sono insufficienti e che bisogna stabilire target più sfidanti. E’ chiaro quindi che mettersi in una posizione scettica forse può tranquillizzare gli spiriti critici, ma non cambia di un grammo le cose. La discussione si sposta non sul “se”, ma sul “come” fare le cose necessarie. Valanghe di denaro pubblico e privato prenderanno la via della decarbonizzazione, e fare in modo che essi siano spesi nel modo più efficiente possibile sarebbe già un obbiettivo ragionevole. Secondo uno studio del think tank “I-comm”, in Italia si tratterebbe di qualcosa come 100 miliardi ogni anno per i prossimi 10 anni (!). 

 

 

Quali saranno le leve atte a spingere in quella direzione? Una prima quota dovrebbe venire dal mondo privato, soprattutto dalle imprese. Se fatto volontariamente qui non ci si dovrebbe preoccupare molto. Processi di miglioramento sia sul lato dell’efficienza energetica, sia su quello dell’economia circolare con relativi risparmi di materie prime possono tranquillamente coesistere con un conto economico in ordine. Un combinato disposto fra sgravi fiscali automatici (superammortamenti e industria 4.0 per esempio) potrebbero anzi compiere il piccolo miracolo di stimolare investimenti e occupazione nel breve periodo e entrate fiscali nel medio/lungo. Come un po’ sta accadendo con gli sgravi per le ristrutturazioni edilizie finalizzate al miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici e alla loro sicurezza. Discorso che vale quindi che per le famiglie. 

 


L'orientamento degli investimenti pubblici verso la green economy potrebbe rappresentare una strada proficua. Essi andrebbero indirizzati soprattutto verso l'elettrificazione dei trasporti pubblici


 

Più complicate le cose si fanno quando passiamo alle misure che lo stato deve mettere in campo sia come azioni regolatorie, che come investimenti propri. “Noi siamo per gli incentivi e non per le tasse”, ha dichiarato recentemente un esponente dei Cinque stelle. Intanto si dimentica che un incentivo è sempre una penalizzazione per chi non lo può ricevere e quindi corrisponde a una tassa implicita. Ma soprattutto guardando al passato la grande mole di incentivi concessi alle rinnovabili in Italia ha certo prodotto un boom degli investimenti in quel settore, ma con un paio di conseguenze molto negative. Innanzitutto l’aggravio delle bollette dove il finanziamento alle rinnovabili pesa per alcune decine di punti percentuali e pesa in modo regressivo, con oneri più alti proporzionalmente per le famiglie più deboli. In secondo luogo in presenza di una debolezza dei produttori non solo italiani, ma europei, abbiamo finanziato massicciamente l’importazione di tecnologie cinesi (i primi 10 produttori di pannelli solari sono cinesi). In terzo luogo abbiamo favorito il finanziamento del settore con una forte presenza di fondi che investono in base a flussi di cassa certi, espellendo la componente di rischio dalle attività energetiche. Tanto è vero che nonostante la caduta verticale dei costi dei materiali (meno 80 per cento) e conseguentemente del Kwh prodotto, si sono fermati anche gli investimenti una volta venuta meno la garanzia dello stato tramite incentivi. Gli incentivi quindi vanno maneggiati con grande cura, sia per gli aggravi che comportano, sia per le distorsioni che determinano in modo permanente nelle regole di mercato. Possono essere accettati in modo ragionevole quale sostegno a innovazioni tecnologiche veramente “disruptive”, ma non devono diventare droghe di sistema. Attenzione per esempio al caso delle auto elettriche.

 

L’orientamento degli investimenti pubblici verso la green economy potrebbe invece rappresentare una strada proficua. Essi andrebbero indirizzati, almeno a mio parere, soprattutto verso l’elettrificazione dei trasporti pubblici. Alta velocità ferroviaria, anche su tratte meno importanti, e modello Milano/Firenze. Linee metropolitane per le città a carico importante (Milano, ma anche Roma e Napoli) e tranvie dedicate per le medie (Firenze, Bologna, ecc.). Con l’equivalente di quello che paghiamo oggi in Italia per le rinnovabili (circa 15 miliardi all’anno) avremmo potuto realizzare, ammesso che ne fossimo capaci, due linee di alta velocità ferroviaria ogni anno, cinque linee di metropolitane pesanti ogni anno, una decina di tranvie medie ogni anno. Praticamente avremmo potuto rifare completamente le linee ferroviarie nazionali e locali. Sarebbe comunque una buona idea scorporare questo tipo di investimenti dal calcolo del debito. 

 

 

Il punto delicato riguarda invece l’uso della leva fiscale. La domanda principale recita: “Come usarla in modo efficiente e come evitare che essa diventi un’ulteriore occasione di semplice aumento del gettito e quindi della pressione fiscale?”. L’esordio italiano non è stato per ora brillante. Chiamare tasse ambientali la tassa sulla plastica o l’adeguamento delle accise sul gasolio evidentemente proposte per coprire i buchi di bilancio, significa solo rendere odiose le tasse ambientali. Che peraltro secondo il rapporto fatto dal ministero dell’Ambiente pesano già per il 3,5 per cento del pil (!). Questo perché imposte nate in altre epoche per ben altri motivi – eminentemente per fare cassa come nel caso della accise sui carburanti, ma non solo – possono essere oggi riclassificate come imposte ambientali. Nel caso specifico delle accise sui carburanti, il professor De Paoli dell’Università Bocconi ha calcolato, usando valutazioni internazionali, che l’accisa sul gasolio è già oggi da 3 a 10 volte superiore ai costi ambientali impliciti nel consumo di questo carburante. E senza considerare che una serie di imposte sono state mascherate in altri contesti, che le escludono dai questi calcoli. Per esempio gli aumenti sulle bollette.

 

Impostare in modo corretto l’uso del fisco ambientale significa tenere conto di due cose. La prima: la tassa ambientale perfetta è quella che non produce gettito. Perché agisce su un bene dannoso, ma facilmente sostituibile e quindi il consumatore o l’impresa si sottrae alla tassa assumendo abitudini di consumo o di approvvigionamento più virtuose. Se invece il bene a cui si applica l’imposta non risulta sostituibile o largamente comprimibile o è ancora conveniente dal punto di vista economico – almeno nel breve-medio periodo perché se questa situazione dura in eterno la tassa non serve a niente – e quindi si produce un gettito, esso non dovrebbe andare ad aumentare la pressione fiscale, ma in diminuzione delle tasse di altri fattori della produzione, quali capitale e lavoro. E’ avvenuto oggi qualche cosa di simile? Direi assolutamente di no. Quando va bene, è il caso per esempio dei permessi di emissione CO2, la tassa viene incamerata e destinata a vari capitoli di bilancio. Decide lo stato cosa farne e intanto la pressione fiscale complessiva aumenta. 

 


Se la tassa non viene applicata in modo omogeneo in tutto il mondo e produrre certi beni in Europa diviene troppo costoso a causa di queste nuove imposizioni, diventa conveniente importare quei beni da altri paesi


 

Il Fondo monetario internazionale ha recentemente stimato in 75 dollari (oggi è intorno ai 25/30) il prezzo ottimale della CO2 per ottenere cambiamenti virtuosi in direzione della decarbonizzazione. Questo comporterebbe un aumento del costo del gas per i consumatori finali italiani attorno al 50 per cento e del 18 per cento per l’elettricità. Una stangata per le famiglie e per le imprese che già lamentano il livello dei costi energetici. Solo del 9 per cento per la benzina per la ragione sopra detta: le accise sono già alte. Ma se il considerevole aumento delle entrate dello stato che ne deriverebbe (in Italia parliamo di circa 400 milioni di tonnellate e quindi di 30 miliardi di dollari totali) fosse interamente riversato come diminuzione delle tasse sui redditi, forse si potrebbe in modo serio proporre questo patto agli italiani (e agli europei). Ma in modo trasparente e senza trucchi. Fra l’altro ne risulterebbero penalizzati gli evasori senza tasse da ridurre. Quando poi la tassa avrà manifestato tutti i suoi effetti positivi provocando la conversione del bene tassato in altro, perché questo deve essere lo scopo, ci sarà sempre modo per ricostruire il gettito fiscale in altro modo.

 

C’è poi un altro rischio da evitare. La concorrenza sleale o il dumping ambientale. Se la tassa non viene applicata in modo omogeneo in tutto il mondo e produrre certi beni in Europa diviene troppo costoso a causa di queste nuove imposizioni, diventa conveniente importare quei beni da altri paesi o delocalizzare gli impianti. Con il risultato di produrre lo stesso CO2, ma altrove, e colpire l’economia domestica. E’ questo l’unico caso in cui mi sentirei favorevole a una tassa compensativa da fare pagare ai prodotti di importazione in base al loro contenuto carbonico. L’Europa ci sta pensando, ma le difficoltà sono grandi.

 

Rimane poi un ultimo punto. Le emissioni totali europee sono oggi il 10 per cento del totale mondiale. Nel 2050 saranno presumibilmente intorno al 5/7 per cento, per ragioni demografiche e per la crescita delle altre aree del mondo. Il suo contributo alla riduzione delle emissioni corre quindi il rischio di essere assolutamente trascurabile. Né pare che molte aree del mondo, a cominciare dall’Asia e dall’Africa, abbiano intenzione di caricarsi di costi che avrebbero conseguenze sociali enormi. Trovare un bilanciamento ragionevole fra queste spinte contrapposte appare impresa eroica. Visto che abbiamo deciso di procedere da soli facciamolo almeno senza inutili demagogie. Concentriamoci per esempio su innovazioni tecnologiche veramente “disruptive” di cui potranno beneficiare anche quelle altre aree del mondo. E su investimenti che comportino benefici reali per occupazione e pil. Per mettersi a posto la coscienza esistono mezzi meno costosi.

Di più su questi argomenti: