Spazzatura esposta in una manifestazione a Giacarta, contro l'uso della plastica usa e getta (foto LaPresse)

Primo ecologista

Andrea Minuz

Levi aveva una passione per la plastica, e aveva capito che i sentimentalismi sull’ambiente sono inutili

Ogni epoca ha la sua minaccia ecologica. Come dimenticare la grande famosa paura delle bombolette spray, dei deodoranti, la messa al bando della lacca per capelli e il senso di colpa dopo estenuanti sessioni allo specchio per sembrare George Michael, Madonna, Cindy Lauper, o per inseguire le vaporosità vertiginose di Joan Collins in “Dynasty” e Melanie Griffith in “Una donna in carriera”. A ogni spruzzo si allargava drammaticamente il buco nell’ozono e si lacerava la grande coscienza occidentale. Che fare? Si divenne maestri nell’arte di cotonarsi con pochi, precisi tocchi sparati come fendenti; più coscienziosamente, si passò poi alla “mousse spray”, soffice, cremosa, dall’aria decisamente più innocente, lanciatissima verso la fine degli anni ottanta, anche se non teneva i ciuffi più alti, non scolpiva e certo non modellava come la lacca. Gli stilisti decretano adesso il gran ritorno delle cotonature sfrenate, bombate, con “fissaggio wow”, naturalmente create solo con spray eco-friendly e all’acqua di mare. Ma il buco dell’ozono è il passato.

 

Ora è il momento della lotta alle bottiglie di plastica. Per salvare il pianeta vanno sostituite tutte con la borraccia in alluminio. Nelle carrozze “executive” del Frecciarossa si vedono sempre più giovani manager con borraccia da riporto cromata, tinte pastello, sempre in bellavista sul tavolino, rigorosamente “Mizu”, “Klean Kanteen” o “24bottles”. Molte borracce anche nei corsi di pilates, all’aperto nei parchi, nelle università. Nel ruolo supremo di cattiva coscienza dell’occidente, la plastica sembra aver scalciato via l’energia nucleare, l’effetto-serra, i gas di scarico ed è oggi l’emblema assoluto della spietatezza, dell’egoismo, della sfrenata pulsione predatoria del capitalismo lanciato a folle velocità verso l’autodistruzione. L’unica occasione in cui l’icona di Greta è vacillata per qualche istante è scaturita da una foto scattata durante il tour in barca a vela verso New York. Sullo sfondo faceva capolino una famigerata bottiglietta di plastica e naturalmente sui social è scattata la gogna ambientalista, sei falsa, hai mentito, inquini pure te, hai tradito.

 

Nel ruolo supremo di cattiva coscienza dell’occidente, la plastica sembra aver scalciato via l’energia nucleare e l’effetto-serra

Lo scorso anno Ikea ha annunciato l’eliminazione della plastica nei suoi negozi e nei suoi ristoranti a partire dal 2020, come parte di una più ampia strategia con cui si impegna a “diventare un brand positivo per la gente e il pianeta entro il 2030” (ma il termine “plastica” lo dobbiamo a un chimico svedese di inizio Ottocento, Jöns Jacob Berzelius). Dal 2018 la Commissione Ue ha adottato la “Strategia Europea per la plastica in una economica circolare” con l’obiettivo di “liberare il mondo dalla plastica”. Pornhub, tra i più celebri siti porno al mondo, ha lanciato una campagna contro “l’inquinamento da plastica” con un video che si intitola “il porno più sporco di sempre” e che invece di sesso acrobatico e performance estreme mostra una coppia che cammina su una spiaggia tipo “Laguna Blu” ma davanti a un mare di plastica (c’è anche un’associazione norvegese, “Fuck for Forest” che produce video porno amatoriali per devolvere il ricavato nella “difesa delle foreste”, in entrambi i casi non una parola sull’impatto dei profilattici sull’ambiente). Il tema dominante delle ultime edizioni della “Giornata dell’ambiente” è stato ovviamente “la plastica monouso”. La plastica è sotto attacco da anni e a differenza dei tortellini in pochi sembrano disposti a difenderla. “Adesso che mi hanno messo un’anca in plastica, gli ambientalisti mi negheranno il diritto alla sepoltura”, diceva Barney Panofsky nel romanzo di Mordecai Richler.

 

Negli anni Sessanta la plastica era ancora sinonimo di progresso, simbolo di una profonda trasformazione degli stili di vita

“Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica”, consigliavano a un giovane Dustin Hoffman in cerca del proprio destino nel film di Mike Nichols, “Il Laureato”. Era il 1967 e la plastica era ancora sinonimo di progresso, metafora e simbolo di una profonda trasformazione dello stile di vita e dei consumi quotidiani. Giusto dieci anni prima, nelle sue “Mythologies”, Roland Barthes dedicava alla plastica due paginette memorabili. Mentre “un oggetto lussuoso è sempre legato alla terra, richiama sempre in maniere preziosa la sua origine minerale o animale, la plastica è interamente inghiottita dall’uso: si inventeranno degli oggetti per il piacere di usarli. La gerarchia delle sostanze è abolita: una sola le sostituisce tutte: il mondo intero può essere plastificato, e perfino la vita, poiché, sembra, si cominciano a fabbricare aorte di plastica”. L’ideale democratico della plastica avrebbe garantito un po’ di “design” nelle case di tutti, almeno prima dell’irruzione del “socialismo minimal” di Ikea. Ma ora è un ricordo lontano. Fa una certa impressione rileggere la motivazione del Nobel per la Chimica del 1963 a Giulio Natta (in coppia con Karl Ziegler) per le ricerche sul polipropilene: “In natura esistono molte macromolecole costruite in modo regolare e controllato, basti pensare alla cellulosa o al caoutchouc. Fino a oggi noi tutti consideravamo che questo fosse un monopolio esclusivo della Natura dato che tali macromolecole sono realizzate con l’aiuto di enzimi. Il Professor Natta ha infranto questo monopolio”. Aspettiamo con ansia la petizione ambientalista su change.org per togliere il Nobel a Natta, come la rimozione delle statue di Cristoforo Colombo nelle università americane. Nel periodo compreso tra le “Mythologies” di Barthes e “Il Laureato”, il polipropilene, la plastica italiana, divenne un portentoso emblema del nostro boom economico. Merito del “Moplen”, il più famoso prodotto della scoperta di Natta, portato in trionfo nelle case di tutti gli italiani dal carosello con Gino Bramieri che sfoderava una parata di oggetti: stoviglie, accessori, giocattoli, spremiagrumi e un jingle per casalinghe che divenne subito un tormentone (“E mo’? E mo’ e mo’! Moplen! … Ma signora, guardi bene che sia fatto di Moplen!”). Prodotto dalla Montecatini, il Moplen era la scoperta del secolo, vanto del “genio italiano” di Natta e chiave di volta della nostra modernità più avanzata. Tra gli ammiratori di Natta non poteva che esserci Primo Levi, il chimico-scrittore che in quegli anni, tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta, era assai preso dall’adattamento televisivo dei suoi racconti di fantascienza che diventavano sceneggiati Rai (“Il Versificatore”, “La Bella addormentata nel frigo”, “Il sesto giorno” e “Procacciatore d’affari”, tutti messi in scena da Massimo Scaglione nella chiave distopico-brechtiana, allora assai in voga, e oggi visibili in rete). In un testo pubblicato sulla rivista scientifica “Prometeo” nel 1984, dove affronta problemi strettamente scientifici legati tra l’altro alla polimerizzazione, Levi tornava sugli studi fondamentali di Natta e spendeva parole di elogio per il suo volume “Stereochimica. Molecole in 3D” (pubblicato nel 1978 da Mondadori, un anno prima della morte di Natta). 

 

Primo Levi lavora a un libro ecologico, “Il doppio legame”, un progetto che resterà incompiuto. Il suo senso per l’ambientalismo

Nella prefazione al volume di Luciano Caglioti, “I due volti della chimica: benefici e rischi” (1979), Levi parla della crescita del movimento ambientalista emerso negli anni settanta, sulla scia della guerra del Kippur e della consapevolezza che il petrolio non sarebbe stato inesauribile (è del 1972 la prima “Giornata dell’ambiente” istituita dall’Onu). Siamo di fronte a “una nuova ferita al concetto illuministico di progresso”: “Già all’inizio di questo secolo, col primo conflitto mondiale, si era incominciato a parlare di progresso con circospezione: progresso sì, ma solo scientifico e tecnico, non certamente morale, e forse neppure artistico”. Oggi “da alcuni pensatori e da molti non-pensatori lo stesso progresso scientifico-tecnologico viene messo in dubbio”. Eppure, dice Levi, “tornare indietro non si può”. “Tornare alle origini significherebbe riaprire le porte alle epidemie e alla mortalità infantile, rinunciare alla produzione dei fertilizzanti chimici riducendo così alla metà o a un terzo la produzione agricola e condannando alla fame centinaia di milioni di individui oltre a quelli che già la patiscono attualmente”. Sin dagli anni Settanta, Levi aveva iniziato a lavorare un libro ecologico, “Il doppio legame”, un progetto che resterà incompiuto. Gli appelli per salvare il pianeta non avevano ancora testimonial adolescenti che parlavano ai leader del pianeta ma Levi capiva lo slancio delle nuove generazioni: “C’è la consapevolezza che stiamo sfruttando all’eccesso, in modo irreversibile, le risorse del pianeta”, diceva in un’intervista al Tg2 nel 1986, “tutto questo è nuovo, non c’era trent’anni fa”. Ma non c’era alcun cedimento utopico all’ambientalismo radicale, alla glorificazione dello stato di natura, alla delegittimazione della scienza e del progresso (“mi trovo molto bene nella natura, però non soffro a stare in città, sono un animale urbano, un animale ormai addomesticato”). Anche il grande interesse di Primo Levi per il mondo animale non cancella affatto la centralità dell’uomo; serve casomai a “comprendere quanto c’è di animale in noi” e “quanto c’era di animale nei nazisti”. Ma torniamo alla plastica.

 

Nel 1985 l’editore Scheiwiller propone a Italo Calvino di tradurre “Le chant du styrène”, l’ode alla plastica composta nel 1957 da Raymond Queneau a commento di un documentario didattico di Alain Resnais. Un lungo poema futurista in lode del “bel polistirolo”, del “rotante polistirene”, del “giovane polimero”, con un finale visionario e preveggente tra “ignote risorse che attendono un destino di riciclaggio, impiego e prezzi di listino”. Travolto dalla mole di termini tecnici e varianti della plastica e del polistirene, Calvino chiede aiuto a Primo Levi, esperto di materie plastiche, con una lettera in cui lo pregava di spiegargli quali fossero i termini giusti (“questo che ti mando è un primo tentativo per farmi la mano a trovare delle rime”). In quel libro formidabile che è “Il sistema periodico”, Levi si abbandona a considerazioni metafisiche sulla plastica. Ricorda quanto, nel 1944, nel laboratorio della fabbrica di gomma sintetica dei tedeschi, gli avrebbe fatto comodo avere il polietilene: “Flessibile, leggero, impermeabile” ma “purtroppo anche incorruttibile”. Possiamo pensare al Padre Eterno, dice Levi, come a un “maestro di polimerizzazioni” che però si astiene dal brevettare il polietilene perché non ama “le cose incorruttibili”. Il Padre Eterno lascia insomma che a brevettarlo siano gli uomini. Che si assumano la loro responsabilità. E così arriviamo ai ricercatori del Dipartimento dell’Energia del Lawrence Berkley National Laboratory che pochi mesi fa (maggio 2019) hanno annunciato di aver messo a punto un nuovo modello di plastica, potenzialmente riciclabile all’infinito, battezzato Pdk (“la maggior parte delle sostanze plastiche non sono state create per essere riciclate”, spiegavano i ricercatori, “ma abbiamo scoperto un nuovo modo di assemblare la plastica che tiene conto del riciclaggio dal punto di vista molecolare”).

 

Nel “Sistema periodico” Levi si abbandona a considerazioni metafisiche sulla plastica. L’elogio del polietilene

E’ ancora presto per capire se entreremo nell’epoca della plastica “circolare” e sostenibile o se andremo tutti in giro con la borraccia al collo, ma certo che, come sempre nei momenti più bui, la miglior risposta al catastrofismo ambientalista che vorrebbe farci tornare nei boschi è la scienza. Il Pdk (“poliedichetoenamina”) avrebbe attirato l’interesse di Levi più delle folle oceaniche di ragazzi contenti di saltare la scuola ogni venerdì e portati in trionfo dai media di tutto il mondo. “E’ bene che i numerosi e gravi problemi di carattere tecnico davanti a cui ci troviamo”, scriveva Levi, “vengano sottratti all’ambito degli emotivi e degli interessati e siano esposti con competenza e sincerità”. L’invito a rileggere Primo Levi coincide sempre, fatalmente, col dovere civile della testimonianza, la “giornata della memoria”, la perennità dell’antifascismo, contro tutti i razzismi, per non dimenticare, tanto più che siamo nel mezzo del centenario. Eppure, proprio questa potrebbe essere l’occasione per rafforzare la conoscenza del Levi illuminista, osservatore empirico, amante del rigore logico, Levi “scrittore” proprio “perché chimico”, come diceva egli stesso. Nell’ondata di irrazionalismo e contestazione del metodo scientifico e ambientalismo messianico-apocalittico che attraversa il dibattito pubblico come una maxi-mono-cultura, c’è ancora più bisogno del Primo Levi che per trent’anni lavorò alla Siva, l’industria di vernici di Settimo Torinese, il Levi de “L’altrui mestiere”, il Levi del “Sistema periodico”, che Italo Calvino definiva non a caso, “il più leviano dei libri di Levi”.

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