Roma, Strike 4 climate - giovani in piazza con i cartelli per la difesa del Pianeta (LaPresse)

Ragioni pragmatiche per l'Eurotower verde

Alberto Brambilla

Cambiare il clima va oltre le facoltà dei banchieri. Possono pensare alle banconote

Nel suo discorso di addio alla Banca centrale europea lunedì Mario Draghi ha indicato quale potrebbe essere la ragione per cui vale la pena combattere e soprattutto per convincere i governi a spendere, ovvero a trasmettere una politica monetaria ultra accomodante all’economia reale e alla popolazione europea. “La storia – ha detto – dimostra che raramente sono stati creati budget per lo scopo generale di stabilizzazione, ma piuttosto per raggiungere obiettivi specifici di interesse pubblico. Negli Stati Uniti, fu la necessità di superare la Grande Depressione che portò all’espansione del bilancio federale negli anni 30. Forse, per l’Europa occorrerà una causa urgente come la mitigazione dei cambiamenti climatici per attirare tale attenzione collettiva”.

  

Il contrasto dei cambiamenti climatici è ormai una battaglia olistica e trasversale di sicuro appeal popolare e di interesse pubblico. Il primo a discuterne fu il governatore della Bank of England Mark Carney nel 2015 e nel 2017 è nato il Network for Greening the Financial System, una coalizione di banche centrali per rendere più sostenibile il sistema finanziario mondiale. La stessa Christine Lagarde ne ha fatto un obiettivo del suo mandato per il suo settennato alla Bce. E’ probabile che il contrasto ai cambiamenti climatici sia un interessante veicolo per riuscire a trasmettere la politica monetaria all’economia in quanto i governi possono approfittare di un periodo ulteriore di allentamento quantitativo per avallare piani di investimento infrastrutturali oppure, in prospettiva, emettere green bond destinati a progetti ambientali che possono eventualmente essere acquistati dalle istituzioni monetarie. Secondo una ricerca Morningstar si prevede un investimento record da 70,4 miliardi di euro in fondi sostenibili, il cui numero è in aumento a 311, che cioè assicurano ai clienti di investire su aziende che dicono di rispettare i criteri internazionali di responsabilità sociale e ambientale. Il problema sottostante per comprendere se l’investimento sia di aiuto a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici non è tanto quello di assicurare il rispetto di una tabella di obiettivi, quanto quello di saper giudicare se le aziende in cui si investe stanno progettando tecnologie utili a mitigare inquinamento ed emissioni di anidride carbonica, cioè le principali preoccupazioni degli ambientalisti.

  

Un fondo di investimento ha le capacità per riconoscerlo? Probabile. E un banchiere centrale invece ce l’ha? Probabilmente no. Come ha notato il commentatore del Financial Times John Dizard, è dubbio che al momento i banchieri centrali abbiano gli strumenti per conoscere in dettaglio il funzionamento di un motore di aereo o che concordino sulla necessità di scoraggiare o meno l’estrazione di alcuni metalli. Il sospetto di Dizard è che i banchieri centrali non siano sufficientemente titolati per mettersi alla guida della battaglia per contrastare i cambiamenti climatici, anche perché hanno già abbastanza sfide che rientrano nel flessibile mandato di difesa della “stabilità finanziaria” (stabilità dei prezzi, sostegno di crescita e occupazione ecc.). Ancora più malizioso è il sospetto che i programmi di acquisto di titoli pubblici, benché ideati per essere temporanei, siano diventati permanenti e che declinarli secondo l’intento di combattere il climate change li renda potenzialmente infiniti.

  

D’altronde come è possibile assicurare un risultato? Se i banchieri centrali occidentali e giapponesi non sono riusciti a mantenere del tutto la promessa di stimolare un aumento dei prezzi e contrastare il rallentamento dell’economia, come potranno dire di avere vinto una battaglia così ambiziosa come quella di mitigare il riscaldamento globale? Il sospetto è legittimo. Soprattutto perché con un’ottima intenzione i banchieri centrali rischiano di avventurarsi su una problematica difficile da maneggiare. Potrebbero però rimanere su un terreno conosciuto, quello della produzione di moneta cartacea e metallica. L’ammontare di moneta fisica circolante è in aumento da dopo la crisi del 2008 benché il suo uso come metodo di pagamento sia in declino, a favore dei pagamenti digitali e delle carte di credito. La produzione di contanti, la loro distribuzione logistica, tra uso di energia per la produzione e carburante per il trasporto, hanno un impatto sulle emissioni di CO2 in atmosfera. Si pensi alle presse, al trasporto aereo e ai mezzi porta valori con i relativi costi di produzione per le banche centrali e di distribuzione e sicurezza per quelle commerciali. Alcune banche stanno riducendo la componente di carta e cotone nelle banconote per sostituirla con polimeri plastici. Eppure una soluzione di precisa responsabilità delle banche centrali potrebbe essere quella di ridurre il contante circolante attraverso la rivoluzionaria emissione di moneta digitale da banca centrale. Varie banche stanno prendendo in seria considerazione l’idea come Canada, Cina, Svezia e Uruguay. Lagarde ne ha parlato da direttore del Fondo monetario internazionale al Singapore Fintec Festival nel 2018. “Le banche centrali dovrebbero emettere una nuova forma di moneta digitale? Un token sostenuto dallo stato, o forse un conto tenuto direttamente presso la banca centrale, a disposizione di persone e imprese per i pagamenti al dettaglio? E’ vero, i nostri depositi in banche commerciali sono già digitali. Ma una valuta digitale sarebbe una responsabilità dello stato, come i contanti oggi, non di un’impresa privata”. Un’idea che nel suo discorso intitolato “Winds of change” diceva di tenere in considerazione anche ragioni di inclusione sociale (penetrare i paesi non bancarizzati). All’epoca non parlò di cambiamenti climatici, non era à la page. Ma è un argomento che potrà considerare.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.