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Whatever it takes to save Ilva

Claudio Cerasa

Ambientalismo ideologico. Giustizialismo chiodato. Decrescita infelice. La gestione dell’Ilva è lo specchio dei vizi che i populismi da anni spacciano come magnifiche virtù. Taranto ci ricorda che la tassa più pericolosa è quella dell’inaffidabilità. Come uscirne

Si scrive Ilva, si legge Italia. Tra le buone ragioni che hanno spinto il Partito democratico e il Movimento 5 stelle a mettere da parte le proprie differenze per dar vita al cosiddetto governo di svolta, quella forse più importante riguarda un tema che ha a che fare con la parola affidabilità. Il governo rossogiallo nasce per archiviare l’epoca dell’inaffidabilità incarnata dal governo gialloverde e nasce per scongiurare la possibilità di affidare anzitempo pieni poteri a un leader politico inaffidabile come Matteo Salvini, convinto, come recita il testo della mozione congressuale del 2017, che “solo conquistando l’egemonia di governo si potrà rimettere in discussione la moneta unica”. Solitamente, il termometro più immediato per misurare l’affidabilità di un paese è quello che coincide con il differenziale di rendimento fra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi e non c’è dubbio che su questo terreno il nuovo governo abbia ottenuto un successo oggettivo (il 9 agosto lo spread era a 237 punti base, oggi è a poco meno della metà, ovvero 143 punti base). Ma lo spread degli interessi sui titoli di stato non può essere l’unico strumento utile a misurare la credibilità di un paese e in alcuni casi può succedere che basti un singolo episodio per mostrare quanto sia sottile la linea che separa un paese capace di accogliere investitori da uno capace solo di farli scappare. In questo senso, la comunicazione fatta ieri da ArcelorMittal ai commissari straordinari dell’Ilva di voler rescindere l’accordo per l’acquisizione delle attività dell’acciaieria, con esplicito riferimento alle difficoltà legate all’incertezza giuridica (lo stop allo scudo penale) e all’incertezza operativa (l’attivismo dei giudici di Taranto), è la prima vera bomba politica a esplodere tra i piedi degli azionisti della maggioranza rossogialla.

 

Nella lettera inviata ai commissari, ArcelorMittal ricorda che il contratto prevede che, nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso contratto e la stessa società ricorda tra le motivazioni che hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa “la cancellazione dello scudo legale”. Al contrario di quello che si potrebbe credere, però, il dramma di Ilva non è solo lo specchio delle difficoltà vissute dall’Italia di oggi – l’immunità penale, che prevede la non responsabilità per fatti relativi alle gestioni precedenti dei nuovi investitori, fu introdotta nel 2015, poi lo scudo venne tolto dalla maggioranza gialloverde, a giugno, mentre la nuova maggioranza lo aveva reinserito nel decreto a ottobre, ma il M5s in extremis è riuscito nuovamente a ritirarlo – ma è lo specchio di tutti i vizi che i populismi italiani da anni spacciano come se fossero delle magnifiche virtù. E nella storia dell’Ilva, in fondo, c’è tutto ciò che di avariato esiste nella cultura politica italiana.

 

C’è la legittimazione dell’interventismo ideologico della magistratura (dopo molti anni passati alla guida della procura di Taranto, il procuratore capo Franco Sebastio si accorse che Ilva inquinava alla vigilia della pensione, decise quindi di avviare l’inchiesta “Ambiente svenduto” chiese poi per portare avanti questa inchiesta il posticipo della pensione, poi si candidò a sindaco, in seguito perse e infine si accontentò di fare l’assessore della città). C’è la benedizione di un ambientalismo da strapazzo che considera la decrescita come l’unica arma per rispettare l’ambiente (Beppe Grillo ha sempre sostenuto che Ilva doveva trasformarsi in un parco giochi). C’è l’incapacità di comprendere quanto costituisca un’emergenza la presenza di un sistema giudiziario utilizzato come uno strumento per affermare una certa idea di giustizia sociale (prima ancora di Luigi Di Maio, fu il gip di Taranto a impugnare lo scorso febbraio davanti alla Corte costituzionale il decreto sull’immunità). C’è infine la non consapevolezza da parte delle principali forze politiche italiane di come sia una sciagura non lavorare per offrire agli imprenditori regole certe per investire nel nostro paese (secondo Svimez, la chiusura dell’Ilva e il blocco della produzione comporterebbero perdite per 24 miliardi di euro sul pil nazionale).

 

E se ci si riflette un istante, la storiaccia dell’Ilva e la vicenda della tassa sulla plastica sono facce della stessa medaglia: intervenire improvvisamente su alcune regole sovrastimando la capacità di adattamento alle norme delle imprese e sottostimando le conseguenze economiche di quei provvedimenti. Ilva, da anni, è come un termometro che permette di misurare la capacità del nostro paese di ragionare sul mezzogiorno non con la logica dei sussidi ma con la logica degli investimenti e quando un termometro del genere segna temperature preoccupanti compito della politica è quello di mettere da parte le divisioni e di organizzare un proprio whatever it takes per salvare l’Ilva non con i soldi di stato (un’idea: un emendamento da far votare anche ai partiti che non si trovano oggi in maggioranza, esperimento che si potrebbe anche ritentare per far slittare la riforma che abolisce la prescrizione dal primo gennaio 2020). La linea che separa un paese capace di accogliere investitori da uno capace solo di farli scappare è molto sottile e un partito che ha interesse a migliorare la reputazione del suo paese non può permettersi di essere ostaggio della decrescita grillina: prima il Pd lo capirà e meglio sarà anche per tutti. Si scrive Ilva, si legge Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.