Una manifestazione dei lavoratori dell’Ex Ilva di Taranto organizzata dall’Usb davanti al Mise (foto LaPresse)

“Basta Ilva”

Valerio Valentini

Due parlamentari del M5s ci spiegano perché il passo indietro di Mittal è una buona notizia (!)

Roma. Un giorno infausto, per Taranto? Macché. Seduti su un divanetto del Transatlantico, Giovanni Vianello e Gianpaolo Cassese mettono in ordine le notizie che s’affastellano in modo convulso sui destini dell’Ilva. “Per la mia Taranto – dice Vianello, che nel capoluogo pugliese ci vice da 38 anni – fu negativo il giorno in cui decisero di aprire lì l’Italsider. E ancora più negativo fu quello in cui lo stabilimento venne ingrandito, negli anni Ottanta. E poi ancora quando, nel 2005, vi installarono un nuovo altoforno per fare fronte alla chiusura dell’area a caldo di Genova. Quelle scelte, tutte maturate senza una adeguata pianificazione, hanno prodotto conseguenze disastrose per la salute della città e dei suoi abitanti”. Ma l’annuncio di ArcelorMittal, che comunica di voler rescindere il contratto di gestione, davvero lo si può accogliere con un’alzata di spalle? “E’ una notizia scontata, parliamoci chiaro”, risponde Cassese, nato e cresciuto a Grottaglie, a una manciata di chilometri dagli stabilimenti dell’Ilva. “Cercavano semplicemente un preteste per potere giocare al rialzo”.

 

 

“Il problema è economico, non penale”

Perché, su questo, nel M5s c’è una certezza quasi granitica: “Quello di Mittal è un annuncio tattico, frutto di una strategia di terrorismo mediatico”, prosegue Cassese. “Il problema del colosso indiano non è legato allo scudo penale: quella è solo una scusa. Il problema dell’azienda – ragiona, sotto lo sguardo concorde del collega, Vianello – è di tipo economico: Mittal perde 800 milioni all’anno, nella gestione dell’impianto di Taranto. Quando abbiamo audito l’ex ad, Matthieu Jehl, il mese scorso, lui non si è fatto scrupoli nell’ammetterlo chiaramente. E quindi ora fanno pressione sul governo per ottenere un contributo di tipo economico”. Fanno, cioè, gli interessi dell’azienda, per quanto cinico possa apparire questo atteggiamento. Sfruttando, però, i continui ripensamenti del governo e del M5s, che rimuovendo lo scudo penale ha offerto a Mittal l’alibi perfetto. “Ma uno stato non può cedere ai continui ricatti di un privato”, ribatte Cassese, che si fa poi esegeta delle intenzioni dei vertici dell’azienda. “La nuova ad Lucia Morselli, nei comunicati di queste ore in cui afferma che occorre spegnere gli altoforni per evitare possibili ricadute penali alla luce dell’assenza dell’immunità, aggiunge che però Mittal è pronta a ripartire con l’attività”. E dunque? “E dunque il messaggio è chiaro: spegniamo i forni fino a quando siamo in perdita, ma li riaccendiamo quando avremo trovato un accordo economico col governo”. “Il che dimostra che l’immunità c’entra poco, o nulla”, chiosa Vianello.

 

 

E allora, che fare? “E’ naturale che un’azienda che perde 800 milioni all’anno chieda di rivedere gli accordi pregressi. La nostra opinione è che si potrebbe ragionare – dice, con tono quasi conciliante, Cassese – ma solo se questa nuova trattativa fosse propedeutica a salvaguardare gli interessi del territorio e della comunità locale”. Nei confronti della quale, comunque, il M5s può rivendicare di avere tenuto il punto. Dopo il cedimento su Tap e Tav, sui condoni e gli F35, il No Ilva è l’unico che sembra resistere. “Non si tratta di una partita di calcio tra chi è pro e chi è contro”, corregge Vianello. “Noi non invochiamo lo smantellamento totale e immediata dello stabilimento. Chiediamo che si chiuda l’impianto a caldo, sulla scia di quanto già accaduto con l’accordo di programma per l’Ilva di Genova nel 1999. Quanto al consenso popolare, è di oggi la pubblicazione degli esiti di un sondaggio organizzato dall’Usb tra gli operai di Taranto: su 8200 consultati, il 91 per cento sono contrari all’immunità penale”.

 

“L’Ilva, un ‘anti brand’ per Taranto”

E’ di oggi, però, anche il rapporto dello Svimez che denuncia, una volta di più, la mancanza di prospettive di lavoro per i giovani del sud. Sicuri che l’eventuale chiusura dell’Ilva sarebbe un bene, per la Puglia? “Se davvero il destino economico di Taranto dipende dalla sua acciaieria – replica Cassese – allora non si spiega come mai, con l’acciaieria in funzione, la città soffre da decenni di una disoccupazione giovanile tremenda”. “La verità – s’intromette Vianello – è che l’Ilva è, per la nostra città, un ‘anti brand’, una pubblicità in negativo che disincentiva il turismo e danneggia anche la nostra industria agroalimentare, dal momento che i nostri prodotti soffrono di un pregiudizio proprio legato alla salubrità dell’aria e del terreno della nostra area. per non parlare della mitilicoltura: fate tutti ironia, quando parliamo degli allevamenti delle cozze, ma negli ultimi anni quel settore ha visto calare da 1.500 a 500 gli addetti. E mille lavoratori in meno in quel campo valgono quanto mille lavoratori in meno nell’acciaieria”.

 

 

Ma qui si rischia una nuova Bagnoli: un nuovo cimitero della siderurgia, inquinante e improduttivo, solo su un’area molto più estesa. “Ma a Bagnoli sono stati rubati i fondi per le bonifiche, ci sono processi in corso per questo. Dobbiamo dare per scontato che lo stesso avverrebbe anche a Taranto?”, s’indigna Vianello. Il quale, poi, un obiettivo lo addito, seppure “di qui a vent’anni”, come spesso accade. “E l’obiettivo è quello di una riconversione economica fatta con serietà e capacità di programmazione, puntando sulle nuove tecnologie o superando l’inaccettabile contrapposizione tra salute e lavoro. E’ stato fatto a Bilbao, è stato fatto nella Ruhr. perché non dovremmo essere capaci di farlo anche noi?”. E l’interrogativo cade nel vuoto, con quel tonfo sordo che accompagna, di solito, le domande che hanno risposte fin troppo ovvie, oppure nessuna.

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