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ArcelorMittal fa assaggiare al M5s le conseguenze della decrescita

Alberto Brambilla

Il primo gruppo siderurgico europeo vuole lasciare l'Ilva e iniziare a spegnerla dopo un anno di follie del M5s. La decrescita si avvera

Roma. Se la “desertificazione” fosse una strategia di politica industriale, il Movimento 5 stelle meriterebbe una candidatura per il prossimo premio Nobel per l’Economia. ArcelorMittal, primo gruppo siderurgico europeo, ha comunicato ieri l’intenzione di recedere dal contratto per la gestione del gruppo Ilva e dello stabilimento di Taranto, programmando così lo spegnimento degli impianti, a poco più di un anno dal suo arrivo quando aveva vinto una gara internazionale. Il M5s, prima con la complicità della Lega e successivamente con quella del Pd, è vicino a realizzare il suo obiettivo: chiudere la fabbrica. 

  

Per ArcelorMittal non è possibile continuare a gestire lo stabilimento di Taranto perché il governo non ha assicurato le tutele legali da eventuali azioni penali per i suoi dirigenti, come era invece previsto dagli accordi iniziali con l’amministrazione straordinaria dell’Ilva risalenti al 2018. Il M5s ha contrastato ArcelorMittal fin dal suo arrivo, nell’agosto dell’anno scorso, dopo avere promesso al suo elettorato la chiusura dello stabilimento tarantino considerato inquinante oltre misura e facendone una battaglia campale per la salute e per l’ambiente. L’ex ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, aveva tentato in ogni modo, raccogliendo pareri legali, di dichiarare illegittima la gara che aveva assegnato l’Ilva ad ArcelorMittal in cordata con la banca Intesa Sanpaolo subentrata al gruppo Marcecaglia. Dopodiché ha tentato di eliminare la cosiddetta immunità penale, cioè la tutela per i dirigenti di essere coinvolti in azioni penali, una facoltà già assegnata anche ai commissari pubblici dell’Ilva, e che era una delle condizioni contrattuali in base alle quali ArcelorMittal aveva accordato di investire fino al 2023 in interventi di riduzione dell’impatto ambientale del siderurgico. Dapprima il M5s ha tentato di eliminare l’immunità a giugno, con la Lega consenziente, e solo quando ArcelorMittal ha dichiarato che non sarebbero più state soddisfatte le condizioni contrattuali, e che quindi avrebbe lasciato lo stabilimento, il governo gialloverde tornò indietro. In estate è stata di nuovo concessa l’immunità con il decreto sulle crisi di impresa e solo pochi mesi più tardi è stata definitivamente eliminata, questa volta con il Pd consenziente, dal governo giallorosso.

 

È cambiata la coalizione ma non la sostanza: il M5s ha guidato le danze per portare alla chiusura dell’Ilva e alla rinuncia dell’Italia a uno stabilimento siderurgico a ciclo integrale, che cioè non solo lavora l’acciaio ma lo produce in quantità e a un prezzo relativamente basso per l’industria meccanica, automobilistica e in generale per un’industria trasformatrice come quella italiana. L’impatto è stimato in un punto e più di pil ma l’analisi macroeconomica, pur significativa, è riduttiva: se davvero ArcelorMittal lasciasse Taranto, il risultato sarebbe una desertificazione industriale in Puglia, con le imprese dell’indotto incapaci di sopravvivere senza cassintegrazione, e con l’onere per le industrie manifatturiere del nord di importare acciaio dall’estero a costi maggiorati. Il problema viene da lontano, dal 2012, con i primi sequestri e il successivo esproprio dello stabilimento da parte dello stato alla famiglia Riva, che dal 1995 gestiva Taranto dopo averla rilevata dalla Italsider pubblica – quando le perdite erano miliardarie, si stimò mille miliardi di lire l’anno, e ogni riforma organizzativa interna era fallita (la giapponese Nippon Steel provò a consigliare una riorganizzazione, ma sindacati e dipendenti li respinsero). Pugno duro o no, i Riva investirono anche in miglioramenti ambientali e lasciarono l’Ilva funzionante e patrimonializzata. Dal sequestro in poi è stato il tracollo, la gestione commissariale l’ha guidata senza esperienza siderurgica e l’ha consegnata ad ArcelorMittal, intenzionata anzitutto a occupare un avamposto strategico in Italia e successivamente impegnata a migliorare la condizione dello stabilimento. I Mittal non avevano fatto i conti con l’opposizione della politica nazionale e locale e si sono trovati contro ogni rappresentante, da Michele Emiliano a Luigi Di Maio, finché ieri non hanno avuto occasione di ricambiare con un preavviso di ben servito. Se ArcelorMittal davvero abbandonerà Ilva iniziando lo spegnimento degli impianti, i commissari dovranno probabilmente indire un’altra gara internazionale per la gestione del gruppo. Chi si presenterà se l’intenzione del M5s resta sempre quella di sostituire la siderurgia con la mitilicoltura e la crescita con la decrescita?

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.