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Uber per bambini

Michele Masneri

Il modello del ride sharing è in crisi, ma ci sono sempre le nicchie

Non si sa se Uber sopravviverà. La compagnia che in America ha sterminato i tassisti offrendo a tutti la possibilità di scarrozzarci economicamente, nata nel 2009, ha registrato nel secondo trimestre di quest’anno la perdita maggiore di sempre, oltre 5 miliardi di dollari, e quando ha deciso di andare in Borsa qualche mese fa è andata malissimo. Anche la concorrente “Lyft”, preferita dai liberal americani perché “di sinistra”, non sta molto meglio, e insomma ci si chiede che fine farà il modello del ride sharing; forse torneranno i vituperati taxi. O forse tutto cambierà quando arriverà l’auto senza conducente (in realtà l’uberista è già un mero giratore di volante e pigiatore di pedali, e conversatore; è un fragile ultimo miglio tra il gps e la meccanica automobilistica. L’uberista infatti viene da fuori città, specialmente nel weekend, fa la giornata e poi torna a casa, nei suoi sobborghi. Non si cura della geografia perché tanto ha il gps. Le rare volte che il segnale salta, egli è perduto. Dunque la sua sostituzione con un robot sarà innocua e veloce, senza rimpianti (infatti Uber punta molto sull’auto senza conducente, anche se si sta dimostrando più complicata del previsto).

Si aprono però nicchie, è evidente, per servizi molto umani ad alto valore aggiunto: come Kango, la Uber dei bambini: li scorrazza alle feste, li porta dagli amici, li tiene se la madre è impegnata. Gli autisti sono anche babysitter certificati, sottoposti a micidiali controlli comprese impronte digitali e fedina penale, telefonabili in qualunque momento. Per le mamme siliconvalliche è chiaramente una svolta.

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