Una stanza dell'Ace Hotel di New York (foto di Matt Biddulph via Flickr)

Vent'anni di Ace

Michele Masneri

La catena e il concetto di albergo alternativo nascevano vent’anni fa a Seattle. E con loro il contrario di un Hilton (ma con prezzi anche più alti)

Sono del ’99 e dunque sono millennial anche loro: gli alberghi della catena Ace Hotel che festeggiano quest’anno in pompa magna il fondamentale anniversario sono nati a Seattle proprio vent’anni fa, con sole ventotto camere e più che altro un tetto per gli amici rocchettari dei fondatori; poi è andata talmente bene che hanno aperto nei luoghi più ganzi d’America – New York, Palm Springs, Los Angeles, Pittsburgh, New Orleans e Chicago, e ora pure Kyoto, Giappone. Con l’idea di aprire in spazi insoliti, evitare i frigobar tristi, e aprire alla città con spazi condivisi, e l’estetica che è quella grunge di quegli anni: abolito ogni lusso per assomigliare a camerette di adolescenti rocchettari, in colori acidi e con pareti di cemento a vista, lampade di carta e seggiole da scuola scrostate (ma costano quanto il Ritz), sono diventati immediatamente “di culto” aprendo poi la strada all’idea di boutique hotel un po’ club un po’ Urban Outfitters (sono le Soho House per giovani). E con l’idea che ogni albergo sia unico, il contrario insomma del concetto di catena che fino a quel punto aveva trionfato (tipo Conrad Hilton di “Mad Men”, che vuole aprire un Hilton anche sulla luna).

 

Grazie anche a location spericolate: a Downtown Los Angeles, un vecchio teatro cadente in quel bellissimo centro storico vagamente napoletano in una città notoriamente senza centro storico, tra negozi di bici materassi telefoni, l’Ace sta tra farmacie messicane, Walgreens, cinema-teatro sfasciati con venditori di “acqua fria” dal frigo portatile, teatri bombardati, il Roxie e il Los Angeles Theatre, con quattro colonne tipo Fontana di Trevi ma schiacciato, e l’orologio alla Dalí a cui mancano le lancette, accanto a un negozio di prime comunioni. Sembra uscito da Gotham City: in uno dei grattacieloni pinnati del déco disperato losangelino, con tutti gli stucchi e le facciate come castelli di sabbia. E teatro sottostante funzionante (che ospita fondamentali “prime” e anche il California Sunday Magazine, il giornale “live”). Al bar del nono piano, poi, nugoli di venti-trentenni emaciati oppure salutisti, che bevono birre Modelo e acqua frizzante Topo Chico, la Lurisia messicana. La piscina, che è in realtà un idromassaggio, è piazzata strategicamente accanto al bar, e se qualcuno ha voglia prende e si tuffa. Da dentro si vedono i frequenti aerei passare sopra le guglie, riflessi nell’acqua molto clorata. A Palm Springs, invece, l’Ace sta in un vecchio motel modernista con gli ombrelloni quadrati bianchi, e tante famigliole bionde con maritini che vengono su da LA il weekend con grosse sceneggiature da leggere (e discotechina strategica).

 

L’Ace Hotel ha dettato la linea anche nella attualissima temperie delle amenities, cioè i prodottini da camera, in epocale trasformazione. Sono stati i primi ad abolirli e ripensarli: nei loro alberghi puoi trovare ceste di graziosi omaggi che comprendono bustine di profilattici, cereali, barrette, ma dei flaconcini di shampoo neanche l’ombra. Nei bagni di questi hotel di languori adolescenti ci sono invece famigerati bottiglioni blindati al muro da una staffa; anche in questo, primi, dunque: nella lotta al prodottino derubabile che ormai imperversa; un po’ per ecologia, un po’ per risparmiare (poi tutto però è regolarmente in vendita presso la boutique dell’hotel, i bottiglioni e perfino la staffa medesima, per appendere il bottiglione a casa propria, evidentemente).

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