Parigi presa d'assedio dalla protesta dei Gilet gialli, dicembre 2018 (Foto LaPresse)

Tormento green

Massimo Nicolazzi

Tassare i fossili per finanziare le energie rinnovabili può avere controindicazioni se grava sui meno abbienti e porta risentimento sociale. Idee per un riscaldamento sostenibile

Pubblichiamo stralci del capitolo “La transizione diseguale” dal libro “Elogio del petrolio – energia e diseguaglianza dal mammut all’auto elettrica” (Feltrinelli, 299 pp., 16,15 euro) di Massimo Nicolazzi. L’autore, dopo una lunga esperienza manageriale (Eni, Lukoil, Centrex), è consulente, docente di Economia delle risorse energetiche all’Università di Torino, senior advisor all’Ispi e fa parte del comitato scientifico di Limes.

  


 

Il rinnovabile era gracile, e dunque andava assistito. Più tasse, più sussidi, più divieti; e dunque un necessario aumentare del costo relativo della fonte energetica. Il costo aumenta per (semplifico) finanziare un ambiente più pulito. Ma l’aumento del costo non è socialmente neutro. Baumol e Oates ci avevano messi sull’avviso già da qualche decennio. “I nostri modelli e le evidenze disponibili danno supporto all’idea che, a conti fatti, i programmi di miglioramento ambientale promuovano gli interessi dei gruppi ad alto reddito più di quelli dei poveri; e possano facilmente aumentare il grado di disuguaglianza corrente nella distribuzione del reddito reale.” Poi non è detto che gli effetti siano sempre e tutti regressivi. Per il benestante l’acqua minerale non è costo ma normalità; e alla soglia di povertà e dintorni sei invece comunque attaccato alla fontana. Un programma di controllo della potabilità e purezza dell’acqua pubblica è più o meno indifferente all’abbiente ma migliora la salute (benessere?) del meno abbiente. Però gli cambia il benessere, e non la distribuzione del reddito. Con l’investire in ambiente, o adesso chiamale emissioni, proponi al meno abbiente un domani più felice in cambio di un po’ di spesa (pubblica) oggi. Qui ti ritrovi con un problema. Più sei vicino a una soglia di povertà (anche relativa) e meno sei disposto a risparmiare sul cibo per emettere meno. Noi, per finanziare un ambiente più pulito, abbiamo quasi senza eccezioni scelto di procedere per imposte sul consumo anziché sul reddito. Di essere cioè regressivi anziché progressivi. Se fate i raffreddatori regressivi sarebbe stupefacente che non aveste problemi di consenso; e se avete solo un problema di consenso è perché avete trovato interlocutori particolarmente educati. […] Si intrecciano due questioni. La prima è di chiederci se uno dei tre principali strumenti statali sia a fini di decarbonizzazione preferibile agli altri. La seconda, e a valle di questa, è chiederci come intervenire su eventuali conseguenze regressive dello strumento che abbiamo scelto.

 

Chi dice che via carbon tax si raccolgono fondi per investimenti dimentica che sono soldi sottratti ai consumi delle famiglie

Alla prima domanda la risposta più immediata ci suggerisce di puntare forte sulla tassazione delle emissioni, a scapito di divieti e sussidi. Price the carbon. Ti “tasso” il carbonio, e rendo competitivamente vincenti le rinnovabili (la market parity, e oltre) accelerando anche la chiusura per progressiva mancanza di margini dell’infrastruttura fossile esistente. Parte del fascino di questa soluzione è che se lavori sul prezzo hai bisogno di meno regolazione, e dunque di meno “governo”. A quel poco di transizione che si è sin qui avviato si è accompagnato un proliferare di burocrazia, certificati premiali, autorità e procedure; che di regola sono funzione dell’amministrazione di divieti e permessi. Siamo solo agli inizi (della transizione); e già la complicazione burocratico-regolatoria cominciamo a sentirla pesante. E come tutto ciò che aumenta la propria difficoltà e la propria complessità, a volte più nebulosa che trasparente. Magari al posto di tutto (o quasi) questo armamentario burocratico ci basta il prezzo.

 

Teniamo in corpo al fossile le esternalità che per star leggero scaricava gratis altrove, e se necessario carichiamolo pure di qualche sovrappeso. Dopodiché il rinnovabile si mostri e si dimostri (competitivo). Se con il sovrappeso imposto al fossile droghiamo un po’ il mercato poi ci basta il mercato. Le rinnovabili superata la market parity, competono tra loro e non più col fossile. Non devi più fornirgli assistenza personalizzata via certificati e incentivi. La generazione o il carburante lo provvede la fonte (rinnovabile) che costa meno. Less pollution e insieme less government. Bingo. Non pochi economisti americani, anche di diversa estrazione politica, si sono fatti attivisti dell’idea di puntare tutto o quasi sul carbon price; e confesso a mia volta di averla non poco in simpatia. Il problema poi ridiventa che prezzo e con che modalità. Se fai il pigouviano ti limiti a incorporare le esternalità e le fai prezzare dallo stato; se vai di Ets te le prezza invece (almeno in parte) il mercato. Né stato né mercato ti garantiscono però il cielo blu. Ti garantiscono (o dovrebbero garantirti) solo che avrai la quantità di inquinamento socialmente ottimale. Non è detto che sia quella climaticamente ottimale. L’ottimo “paretiano” magari non ti salva dal diluvio; però è ottimo. Penso all’Europa e mi chiedo cosa resti da tassare e dove. Nell’industria energivora la carbon tax è implicita nel sistema di Ets. Il costo del permesso di emissione può ancora crescere; e magari la Ue trovare una regola per stimolare la crescita. Ma altro e per di più a livello nazionale non ci dovrebbe riuscire di inventare. La tassazione delle emissioni dei settori energivori consideriamola ormai giurisdizione esclusiva delle istituzioni comunitarie. […]

 

A quel poco di transizione sin qui avviato s’è accompagnato un proliferare di burocrazia, poi arriveranno le tasse

Dieci anni fa nessuno sembrava avere dubbi sulla piena regressività del carbon price in forma di tassa; e al massimo ci si chiedeva se la regressività si sarebbe manifestata modesta o forte. C’era insomma certezza sul fatto che il peso da sopportare sarebbe stato molto più greve per i gruppi sociali a basso reddito che non per i quintili o decili superiori della popolazione; arrivando a ipotizzare che l’incidenza del price sul reddito del quintile inferiore sarebbe stata 3,2 volte superiore a quella sul quintile più alto. Qualche studio più recente sembra però riaggiustare la mira. Uno studio12 dell’Office of Tax Analysis (Ota) americano ha simulato l’impatto distribuzionale di una carbon tax di 49 dollari per tonnellata emessa sulla popolazione americana a questi fini divisa in decili. Ne è venuto fuori che i decili il cui reddito veniva percentualmente più colpito erano quelli da 60 a 90 (con un impatto dell’1,8 per cento); mentre il primo decile (il più povero) subirebbe un impatto solo dello 0,8 (meglio farebbe solo l’ultimo 0,1 per cento con 0,7). Il peso è percentualmente maggiore non per le famiglie più povere, ma per quelle che hanno maggiore carbon footprint (decidete voi se preferite tradurre con impronta ecologica o impronta di carbonio…). Le famiglie insomma che guidano di più, che prendono più aerei, e che vivono in case grandi occupate da più che numerose diavolerie alimentate elettricamente. L’analisi di Ota porrebbe così fine al mito della regressività di una carbon tax. Tecnicamente corretto. Però c’è regressività in senso tecnico; ma anche (se mi passate l’espressione) regressività sociale. Può bastare lo 0,8 per cento in meno del primo decile a far sì che parte di esso scenda sotto la soglia della povertà energetica; dal che i decili più colpiti sono per certo immuni.

 

Se poi risalite i decili, ve ne esce che tra 20 e 50 l’impatto è rispettivamente 1,5-1,6 e 1,7 per cento. La lower middle class subisce un impatto percentuale molto simile a quello dell’upper middle class (1,8 per cento). Il problema è che, come ci ha insegnato tra gli altri Milanovicć, in termini di variazioni di reddito negli ultimi decenni i grandi perdenti sono stati le “lower middle classes of the rich world”. Che sono il bagno di coltura dei neopopulismi; e anche gli strati sociali che in tuta o in gilet sono per frustrazione più propensi alla rivolta. Magari l’impatto della tua carbon tax non è tecnicamente regressivo; ma socialmente rischia di farti esplodere contro i più esposti, e a farti misurare le tue chance di consenso maggioritario in termini pressoché coincidenti allo zero. Qui l’altra faccia della medaglia, che è anche quella che potrebbe portare speranza. Via carbon tax lo stato incassa soldi, e potenzialmente tanti. Visto che in ultima istanza li preleva dal consumatore e non dal produttore, dovrebbe poi trovare a strettissimo giro di posta un modo equo per almeno in parte restituirli. Il bonus brasato di cui ho scritto perdonatemelo giusto come simbolo di quest’esigenza. Chi dice che via carbon tax si raccolgono i fondi per finanziare gli investimenti della transizione sembra dimenticare che sono soldi sottratti non al petroliere ma ai consumi delle famiglie. […]

 

Una carbon tax di per sé non ti dice nulla o quasi della tua politica sociale. Per quello hai bisogno di mettere inscindibilmente assieme il gettito della tassa e il suo reimpiego, che è poi il passaggio che ha fatto transire l’analisi dalla necessaria implicita regressività al “parliamone”. Se metti insieme gettito e reimpiego puoi anche decidere di usare la tassa come strumento non distributivamente neutro ma decisamente redistributivo. […]

 

Se spargi bene l’effetto della manovra intera sui tuoi decili di popolazione, c’è rischio che tu riesca ad aumentare il prezzo della benzina e insieme a vincere le elezioni. Che è un’idea che andrebbe forse raccontata a politici e decisori; ma lascio a voi che siete molto più bravi di me di provarci. La transizione energetica non è un pranzo gratis. La transizione energetica costa; e come distribuisci il costo è determinante del consenso; e dunque anche del se e quando ti riesce di compierla. “La sostenibilità ecologica non può andare disgiunta dall’equità sociale”. Equità. Globale e nazionale. Diminuiscono le diseguaglianze tra Stati, ma aumentano le diseguaglianze tra i cittadini dei singoli stati. Qualcuno ne ha tratto la conclusione visionaria che i contributi alla decarbonizzazione debbano perciò essere globalmente individuali, e non frutto di impegni statali; e che sulla base di criteri neutrali si debba determinare e imporre una carbon tax globale e progressiva applicabile a tutti i cittadini del mondo. Non sarebbe male se a un qualche Cop almeno ne parlassero; ma penso siamo tutti coscienti che al momento giusto di visione si tratta. Però una qualche ispirazione a livello di singole giurisdizioni nazionali non sarebbe inopportuna. La pace sociale aiuta crescita e benessere più di quanto una chiara progressività dell’imposizione degli oneri ambientali e della transizione non possa minarli. […] Le proiezioni di quel che si dovrebbe investire per garantire che ci si salvi dallo scaldarci troppo variano ovviamente a seconda dei predittori. Per rimanere agli scenari Iea, quello che abbiamo assunto come caso base da qui al 2040 ti fa investire in rinnovabili 331 miliardi all’anno sino al 2025 compreso; e poi 380. Lo scenario di sviluppo sostenibile (che è quello che potrebbe tenerci relativamente freschi) quota rispettivamente 467 e 663. […]

 

Lasciate che mi contenti della mia dieta. Fossile scottato e rinnovabili nature, con una tripla grattata di efficienza energetica a condire. Voleste un Dac (Direct-air Carbon Capture, l’idea di catturare la CO2 in atmosfera per poi usarla come carburante) per l’aperitivo, se è a spese vostre siete benvenuti. Se facciamo dieta stretta e aumentiamo un poco alla volta il rinnovabile c’è il rischio che riscaldi, però se siamo bravi magari non troppo. Chiamatelo, se volete, riscaldamento sostenibile.