Greta Thunberg alle Nazioni Unite (foto LaPresse)

Togliere la difesa dell'ambiente dalle mani degli ambientalisti

Claudio Cerasa

I danni di un ambientalismo che gioca con il capitalismo, le tasse, i vizi, le nascite e il modello bancomat dell’Europa

Ci sono molte buone ragioni per criticare la teologia apocalittica scelta dai follower di Greta Thunberg per ragionare attorno al futuro dell’ambiente con l’idea di colpevolizzare la società occidentale ritenendola la causa principale dei fenomeni legati al riscaldamento climatico. Ma se c’è invece una buona ragione per ringraziare l’attivista svedese quella ragione va ricercata nella capacità avuta da Greta nel costringerci involontariamente a rispondere a una domanda a cui prima o poi anche i sostenitori di Greta dovrebbero rispondere: come evitare che l’ideologia vuota dell’ambientalismo catastrofista venga utilizzata per delegittimare le giuste battaglie sull’ambiente per legittimare al contrario solo politiche altrimenti non difendibili?

 

A New York, come sappiamo, si è appena aperta, all’Onu, la conferenza mondiale sul clima. In Italia, come abbiamo visto, si è appena aperta una discussione su come tagliare i sussidi ambientalmente dannosi. Al governo, come avrete visto, c’è chi ha suggerito l’idea di tassare i voli e le merendine per fare cassa in nome dell’ambiente. In Europa, come è noto, si discute da settimane di un famigerato Green New Deal.

 

In Vaticano, come annunciato, si lavora da mesi a un Sinodo che, formalmente, porrà al centro del dibattito il tema dell’Amazzonia. Difendere l’ambiente è cosa buona e giusta – anche se, come suggerito qualche giorno fa dal Wall Street Journal, lasciare che i bambini siano i leader nel campo dei cambiamenti climatici è una ricetta per il disastro sicuro. Ma chi ha a cuore la difesa dell’ambiente dovrebbe preoccuparsi più di chiunque altro di non delegittimare le battaglie in difesa dell’ambiente, spacciando per difesa dell’ambiente ciò che con la difesa dell’ambiente c’entra poco o nulla.

 

Vale quando l’ambientalismo diventa una scusa per fare quello che senza l’ambientalismo non sarebbe concesso, come trasformare l’Europa in un bancomat capace di deresponsabilizzare gli stati membri rispetto al tema dell’efficienza dei conti pubblici. Vale quando l’ambientalismo diventa uno scudo per rendere inattaccabile ciò che senza l’ambientalismo sarebbe più facilmente attaccabile, come legittimare la lotta dello stato contro i vizi del popolo. Vale quando l’ambientalismo diventa una leva economica per rendere sexy ciò che sexy semplicemente non è, come la decisione di costruire manovre economiche aumentando le tasse piuttosto che riducendo le spese. Vale quando l’ambientalismo diventa un pretesto per giustificare ciò che senza l’ambientalismo non sarebbe giustificabile, come la lotta trasversale contro gli inceneritori in nome di un’utopia verde che nell’attesa di avere un mondo fatto a misura di raccolta differenziata non si preoccupa di come salvare il mondo. Vale quando l’ambientalismo diventa un modo come un altro per giustificare ciò che altrimenti sarebbe difficilmente giustificabile, come per esempio il controllo delle nascite, in nome di un mondo che per essere meno inquinato ha ovviamente bisogno di essere meno popolato.

 

La difesa dell’ambiente è un affare troppo serio per lasciarlo nelle mani di ambientalisti distratti, incapaci di ricordare come il progresso abbia permesso a milioni di persone di affrancarsi dalla povertà e desiderosi di affermare con altri mezzi politiche altrimenti poco popolari venate di anticapitalismo. Fino a che l’ambientalismo verrà utilizzato per giustificare l’ingiustificabile non si potrà non ringraziare Greta per averci costretto a ragionare sul tema. Ma non si potrà non riconoscere che per il momento, se l’ambientalismo diventa un’ideologia vuota che si limita a trasformare in infedeli tutti coloro che hanno una visione meno apocalittica rispetto a quella di Greta, il clima irrespirabile è quello che si respira quando si parla d’ambiente.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.