Il chaparral bruciato sulle montagne di Santa Monica, vicino a Malibu, in California, all'indomani dell'incendio del 14 novembre 2018 (LaPresse)

La risposta ai catastrofisti del clima non è più apocalisse, ma più investimenti

Bjorn Lomborg*

Il cambiamento climatico c’è e si può affrontare senza isterie

Le esagerazioni sul riscaldamento globale non sono mai state così tante. Mentre alcuni critici insistono nel dire – in maniera impropria – che il riscaldamento globale è un’invenzione, molti di più – altrettanto impropriamente – insistono sul fatto che stiamo affrontando una crisi climatica imminente che minaccia la civilizzazione.

  

Sfortunatamente questo, in aggiunta alla polarizzazione sul tema, rende praticamente impossibile impegnarsi in una discussione su politiche ragionevoli.

  

Un esempio: ci viene ripetuto costantemente che il cambiamento climatico è responsabile della crescita di fenomeni meteorologici estremi come alluvioni, siccità e uragani. Ma il panel scientifico delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, in realtà, scrive che i dati smentiscono l’affermazione secondo cui alluvioni, siccità e uragani sarebbero in crescita. Gli scienziati dicono che “c’è una bassa fiducia nella possibilità di osservare un trend su scala globale” per quanto riguarda le siccità, una “mancanza di prove che indichino un trend su scala globale delle alluvioni per magnitudo e frequenza”, e “nessun trend significativo nella frequenza globale degli uragani nell’ultimo secolo”. Inoltre, gli scienziati ritengono che l’attuale riscaldamento globale causato dall’uomo non possa essere ragionevolmente collegato a nessuno di questi fenomeni meteorologici estremi: “A livello globale, la certezza nell’attribuire all’influenza umana i cambiamenti nell’attività (degli uragani) è poca”, così com’è limitata la certezza nel rilevamento e attribuzione nei cambiamenti delle siccità” e nel fatto che “il cambiamento climatico antropogenico abbia influenzato la frequenza e la magnitudine delle alluvioni”. Questo non significa che il problema non si debba porre – è solo che i fatti contano.

   

Cosa si nasconde dietro la retorica eccessiva? Quasi trent’anni di politiche fallimentari. Le promesse di ridurre l’uso del carbone fatte a Rio de Janeiro nel 1992 e il Trattato di Kyoto del 1997 hanno portato a poco o niente. A tre anni dalla stesura degli accordi di Parigi, solo 17 paesi sono in linea con gli obiettivi – paesi come Samoa e Algeria, le cui promesse erano limitate. In realtà, da quando sono iniziati gli incontri sul clima nel 1992, il mondo ha emesso tanta CO2 da combustibili fossili quanta ne aveva emessa l’intera umanità sin dall’inizio dei tempi.

  

La ragione di questo persistente fallimento – e delle esagerazioni di oggi – è che le politiche per tagliare l’uso del carbone sono incredibilmente costose. C’è il rischio che gli accordi di Parigi costino tra gli 1 e i 2 trilioni di dollari all’anno, rendendoli i più costosi della storia. Ed è vertiginosamente costoso azzerare le emissioni. Nonostante molti politici ripetano occasionalmente che l’obiettivo dovrebbe essere questo, in pochi osano chiedere quanto possa costare. Un rapporto commissionato dal governo della Nuova Zelanda ha scoperto che azzerare le emissioni entro il 2050 costerebbe al paese più dell’intero attuale bilancio dello stato, per ogni anno fino al 2050 – e questo tenendo in considerazione lo scenario più favorevole, con i costi che raddoppiano o più raggiungendo il 36 per cento del pil.

  

I promotori di politiche ambientali molto costose sembrano credere che l’unico modo per superare questi costi esorbitanti per gli elettori sia spaventare la gente in maniera infantile.

  

Sfortunatamente, questo approccio difficilmente può funzionare. Non solo sta inutilmente polarizzando ancor di più il tema ambientale, ma è anche probabile che danneggi la credibilità della scienza, visto che la ricerca è vista sempre più come un tentativo di parte per favorire una particolare decisione piuttosto che una disinteressata ricerca della verità.

  

E persino come strategia politica, sembra destinata a fallire: una volta che i costi s’impenneranno, assisteremo a sempre più proteste di strada come in Francia, o a sconfitte elettorali come in Australia, Brasile e Filippine, visto che gli elettori si indirizzeranno verso politici che propongono di fare marcia indietro sulle costose politiche ambientali.

 

Basta confrontare la prospettiva di spendere migliaia di dollari per il clima con un nuovo sondaggio che mostra come quasi 7 americani su 10 voterebbero contro la proposta di sborsare anche solo 10 dollari al mese per combattere il cambiamento climatico.

  

C’è un approccio sicuramente più ragionevole: invece di spaventare gli elettori facendo loro accettare i maggiori costi dei combustibili fossili, dovremmo ritoccare il prezzo della green economy – quando essa diventerà più conveniente del carbone e del petrolio, tutti quanti vorranno fare il cambio da una forma di energia all’altra.

  

Sin dagli anni Ottanta, la spesa complessiva in ricerca e sviluppo orientata a limitare l’utilizzo del carbone nella media dei paesi aderenti all’Ocse è scesa dallo 0,06 per cento del pil allo 0,03. Possiamo (e dovremmo) investire molto di più in ricerca e sviluppo rinnovabile. Sarebbe molto più conveniente delle politiche in atto e con maggiori possibilità di avere successo.

   

Possiamo reclamare il centro pragmatico del dibattito solo se smettiamo di accettare le incessanti esagerazioni sul clima. Il cambiamento climatico è un problema, e necessita di una soluzione intelligente e coscienziosa dei costi per essere affrontato.

   

*Bjorn Lomborg è presidente del Copenhagen Consensus Center

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