La scultura "L.O.V.E" di Maurizio Cattelan di fronte alla Borsa di Milano (foto LaPresse)

Se il Financial Times vuole combattere il “capitalismo di relazione”, l'arma migliore è la concorrenza

Alberto Mingardi

Sono i chilometri di leggi che dovrebbero “correggere” l’economia di mercato la fonte di quelle distorsioni che poi vengono attribuite all’economia di mercato stessa

Il dibattito politico contemporaneo si fonda su un grande equivoco: sull’idea, cioè, che il “capitalismo reale” col quale conviviamo tutti i giorni sia un “libero mercato” senza regole e limiti. Sovrana ne sarebbe una formula generalissima: che, cioè, le imprese private esistano per fare profitti, come del resto sta scritto nei loro statuti. Il salto logico è immaginare che dalla natura delle imprese discendano quasi automaticamente le regole alle quali è sottoposta l’intera società. E’ proprio così? 

 

 

L’aspirazione del Financial Times di riscrivere le regole del capitalismo serve almeno a lavare via un po’ di ipocrisia. Il quotidiano delle classi dirigenti esprime l’ambizione delle classi dirigenti: continuare a dettare le regole del gioco. Il concetto per cui il mestiere di un’azienda privata è fare profitto per i suoi proprietari non implica che il profitto sia l’unico fine sociale legittimo: a meno che non si creda che le imprese siano le uniche istituzioni su piazza. Per fortuna non è così. Famiglie, associazioni, club, enti pubblici e privati di questo o quel tipo abitano lo stesso mondo delle imprese e lo fanno sulla base di regole diverse. L’uso economico delle risorse (che è ciò che segnalano i profitti positivi) appartiene a certi ambiti di attività e non ad altri: non è ciò che ci aspettiamo, per esempio, all’interno di una famiglia o di una coppia.

 

Come aveva ben spiegato lo stesso Milton Friedman, che porta la croce di “teorico” dello shareholder value per poche righe in “Capitalismo e libertà” e per un articolo del 1970, la ricerca del profitto avviene all’interno di un quadro di norme, che le imprese non definiscono da sole. Si fa presto a rigirare la frittata: le imprese hanno influenza economica, orientano l’azione di politici e tribunali, provano a guidare l’opinione pubblica in una direzione o nell’altra, e questo è tanto più vero quanto più un’azienda è grande. Non è certo una novità: da “Ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia” in avanti, chi ha molti occupati e un fatturato importante ha sempre buone carte da esibire al tavolo del confronto con il potere. La questione è qual è la posta in gioco, cioè ciò che il potere può fare per lui. Siccome oggi il potere può fare, sostanzialmente, tutto quello che vuole, la gara ad accaparrarsi influenza politica sarà più accesa di qualsiasi concorrenza di mercato. Ciò che oggi viene definito “capitalismo” in realtà è “crony capitalism”, il capitalismo degli amici degli amici che s’avvantaggiano della prossimità con la politica per evitare di confrontarsi con la disciplina del mercato.

 

 

 

Accidenti se questo è un problema, sia in termini di efficienza (quanto sono costati, al nostro paese, quarant’anni di capitalismo di relazione?) sia in termini di equità. Ma le sue radici affondano nella dottrina dello shareholder value? O non è piuttosto inevitabile, che in un mondo nel quale non c’è materia che non possa essere oggetto di leggi e provvedimenti ad hoc, qualcuno trovi il modo di avvantaggiarsene? Le classi dirigenti si guardino allo specchio, se cercano un responsabile. Sono spesso i chilometri di leggi che dovrebbero “correggere” l’economia di mercato la fonte di quelle distorsioni che poi vengono attribuite all’economia di mercato stessa. 

 

Per paradosso, proprio nell’economia di mercato sta il più efficace strumento per calmierare i profitti di una singola azienda: è la libera concorrenza. Ridurre le barriere all’ingresso (che coincidono con norme e leggi volute e scritte da qualcuno) serve allo scopo più di qualsiasi dichiarazione di “responsabilità sociale”.

 

Riaprendo l’eterno dibattito su come “rinnovare” il capitalismo, il Financial Times in fondo fa cosa utile: ci aiuta a disaccoppiare libero mercato e classi dirigenti, rammentandoci come queste ultime prosperino proprio sulle “correzioni” che apportano all’economia di mercato. L’apparato ideologico con il quale le giustificano cambia a seconda del momento: dalla giustizia sociale all’ambiente. A conti fatti, nulla di nuovo sotto il sole. Che sulla barricata del più interventismo si trovino, assieme, imprese e intellettuali non è una novità. Li unisce il filo rosso dell’autointeresse: entrambi vogliono trovarsi in cabina di regia. Che poi questo autointeresse si travesta da denuncia del motivo del profitto, non deve scomporci più di tanto. Chi vuole porre un freno alla ricerca del profitto non pensa mai a se stesso, ma invece a come penalizzare il suo concorrente.

 

Se c’è poco di nuovo in questa polemica, più preoccupante è il contesto nel quale si situa e la visione d’insieme che essa rafforza. E’ assai diffusa l’idea che i populismi contemporanei prosperino sui divari che si allargano, sull’economia che premia sempre più alcuni e penalizza sempre più altri. Questo “premiare” e questo “penalizzare” altro non sarebbero che meccanismi automatici, corollari inevitabili della legge della massimizzazione dei profitti. Le prove a sostegno di questa tesi sono correlazioni a volte traballanti: il pensatore di riferimento, Thomas Piketty, ha costruito il suo successo sull’ennesima “contraddizione fondamentale del capitalismo” che risiederebbe nella tendenza del tasso di remunerazione del capitale a crescere più velocemente dell’economia. In tempi di tassi di interessi zero o negativi, i risparmiatori se la sognano di notte la legge individuata con tanta acribia da Piketty.

 

 

 

E se le cause dell’insorgenza populista stessero altrove? I leader politici si esercitano a offrire capri espiatori a elettorati che ne sentono un gran bisogno. E’ davvero perché si sentono traditi dal sistema capitalistico, perché soffrono gli effetti della disoccupazione tecnologica (ma se i tassi di aumento della produttività sono decisamente più bassi che in passato, questo è davvero un problema?), perché sperimentano sulla propria pelle la “commodificazione” che sovrasta la nostra società commerciale? Il problema più grosso di questo strano economicismo è che ci fa perdere di vista le trasformazioni profonde, solo perché non sono immediatamente attribuibili alla globalizzazione o al libero mercato. Famiglie relativamente solide, con una mamma e un papà che rappresentino modelli di comportamento agli occhi dei figli, stanno diventando un bene di lusso al quale ha accesso una minoranza di giovani. L’istruzione pubblica è ovunque sull’orlo del collasso e la permanente ostilità dello stato a ogni alternativa privata fa sì che nascano sì scuole nuove e che funzionano: ma che per consumatori si scelgano, in questo caso per davvero, solo ricchi e ricchissimi. Corruzione e incompetenza della classe politica liberano forse le persone dall’illusione che di lì possa venire loro la salvezza: ma imbruttiscono la società tutta, perché se chi sta in cima alla piramide sociale è un figlio di puttana da competizione la deduzione logica è che non ci resta che cimentarci nella stessa gara.

 

Abbiamo perso il senso del limite, nei comportamenti pubblici come in quelli privati. E il senso del limite, l’idea che ci sono delle porte che non si possono aprire, che ci sono delle cose che non si devono fare, è il cuore di una società liberale. Una società liberale è quella in cui le persone credono che lo Stato non debba intervenire negli affari degli individui, ma che costoro debbano esercitare il più rigido autocontrollo. E’ l’esatto contrario della morale dei giorni nostri, dall’Ft al bar sotto casa.

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