La retorica del capitalismo in crisi non va mai in crisi

Michele Boldrin

L’idea del Ft di ridisegnare una società migliore a tavolino non è nuova. E non è neppure una buona idea

Iniziò Karl Marx, approssimativamente 150 anni fa. Non fu il primo a sostenere che il sistema economico-sociale esistente potesse essere ridisegnato a tavolino da qualche illuminato pensatore, ma fu il primo a formulare l’approccio adottato ancor oggi da Financial Times, novella mosca cocchiera della réforme sociale. Esso si fonda su tre, fantasiosi, ipotesi: (i) esiste una forma di organizzazione sociale, omogenea e monolitica, chiamata “capitalismo”; (ii) essa è guidata da leggi e princìpi disfunzionali che impediscono il raggiungimento di un benessere sociale altrimenti possibile; (iii) esiste un modello alternativo e superiore, raggiungibile attraverso l’azione collettiva, guidata dalla politica ed illuminata dai cultori delle scienze sociali che hanno elaborato in salotto il modello alternativo.

 

 

Che, in conseguenza della natura fantasiosa dei suoi assiomi, tale approccio non abbia mai, ma davvero mai, funzionato – e abbia anzi, se perseguito, condotto orrendi fallimenti e immani tragedie – non sembra aver scalfito la certezza dei credenti nella palingenesi sociale. L’ultima esperienza saliente è di circa dieci anni fa, ai tempi della crisi finanziaria: un’armata di pensatori proclamò la fine del capitalismo e l’avvento d’una nuova èra. L’unico risultato tangibile di tanto predicare fu (nella migliore tradizione capitalistica) l’arricchimento di un certo numero di cultori del doom & gloom, a simbolo del quale ricordiamo tutti una sfarzosa jacuzzi su di una terrazza in Tribeca, NYC. Fatti alcuni aggiustamenti tecnici e ripulito il mercato degli zombie, lo stesso sistema ci ha regalato l’espansione più lunga della storia.

 

 

Va dunque tutto bene, madama la marchesa? Assolutamente no, ci mancherebbe. Moltissime cose non funzionano e in molti angoli del mondo, Italia in primis il meccanismo della crescita si è andato inceppando, in molteplici punti, oramai da parecchi anni. In altri paesi, invece, esso ha iniziato a funzionare come mai aveva fatto prima. Un esempio fra i cento possibili: a causa del “capitalismo”, in quel disperato paese chiamato Etiopia il reddito reale per-capita cresce al 5 per cento all’anno da più di un decennio. Il mondo è interessante perché è sia vario che complesso. Qualsiasi analisi socio-economica che prescinda dalla varietà e complessità del mondo in cui viviamo, cercando d’inscatolarlo in categorie dicotomiche vecchie di decenni, è di scarso aiuto sia alla comprensione che alla riforma, del medesimo.

 


Non ha senso parlare di “capitalismo” come se fosse un’organizzazione sociale monolitica. Non vuol dire che tutto va bene, molte cose non funzionano. Ma se si indaga sulle origini storiche e le determinanti dei fenomeni monopolistici denunciati, si scopre che il ruolo dello “stato” è più importante del “mercato”


 

Il programma intellettuale e politico che l’Ft propone soddisfa perfettamente il modello delle tre ipotesi fantasiose menzionato sopra. Se va bene esso produrrà lustro e fama per i suoi teorici. Se va male potremmo dover sperimentare alcune varianti contemporanee della Novaja Ekonomičeskaja Politika tinta di un apocalittico verde ... quindi facciamo i debiti scongiuri e riflettiamo su quel che ci viene proposto.

 

Come anche l’Ft implicitamente riconosce, la parola “capitalismo” (quando ha un senso compiuto) indica l’esistenza della proprietà economica privata e la contrattabilità delle prestazioni lavorative. L’Italia di oggi e quella di 2000 anni orsono soddisfano questi requisiti, i quali valgono anche per la Russia di oggi e quella del secolo XVIII o per la Cina dei Ming e quella di Xi Jinping. Capitalismo, quindi, indica quasi tutto e, di conseguenza, quasi niente: discuterne in questi termini è una perfetta perdita di tempo. Infatti, i poteri di monopolio esistono oggi in certi settori e non in certi altri e in certi paesi e non in certi altri. Se questo ci preoccupa – chi scrive lo è da tempo – l’unica cosa utile da fare è focalizzarsi non su una supposta crisi del sistema capitalistico ma su patologie specifiche che, frequentemente, hanno origini politiche e non economiche.

 

Così facendo si arriva a scoprire che la crescita del potere di mercato di alcune aziende e la conseguente concentrazione monopolistica di alcuni settori è solo molto vagamente dovuta a delle leggi generali del sistema “capitalista”. Basti pensare al trasporto aereo ed alle telecomunicazioni negli Stati Uniti, alla rete autostradale e al servizio ferroviario in buona parte dell’Europa, alla fornitura dei servizi energetici da entrambi i lati dell’Atlantico o, per cambiare continente, al sistema bancario giapponese. O, per rimanere vicini a casa, ai servizi privati di trasporto urbano nelle città italiane, ovvero ai taxi. O alla proprietà immobiliare ad Hong Kong ...

 

Se si indaga sulle origini storiche e le determinanti attuali di questi fenomeni monopolistici si scopre che il ruolo dello “stato”, delle sue concessioni e del suo intervento in qualità di regolatore è probabilmente più importante di quello del “mercato”. La qual cosa non implica, ovviamente, che si tratti ora d’iniziare a scrivere ampollosi saggi sulla “crisi dello stato” (che magari c’è, ma non certo a causa delle concessioni di Atlantia) ma di sedersi, invece, sobriamente al tavolo per capire la sequenza di scelte politiche e l’intreccio di gruppi d’interesse economico, sociale ed elettorale che hanno condotto a questo o quell’altro fenomeno di monopolio socialmente dannoso.

 

Un esempio rilevante – a cui ho dedicato una certa attenzione negli ultimi due decenni e che considero, alla luce di dati e fatti, come il fattore principale (non l’unico) della visibile crescita nella concentrazione monopolistica in alcuni settori – è quello della legislazione sulla proprietà intellettuale: brevetti, copyright e trademark. Essi generano vaste rendite monopolistiche e impediscono concorrenza, innovazione ed entrata di nuove imprese. Nessuno di essi costituisce, di per sé, una caratteristica essenziale del “capitalismo”. Essi sono, invece, il prodotto dell’interazione fra gruppi d’interesse economico e la discrezionalità del potere politico nel concedere o togliere privilegi in funzione della costruzione del consenso ad esso necessario. Se si ha davvero a cuore l’adozione di concrete misure che riducano il potere di monopolio e le nocive rendite ad esse conseguenti, molto meglio concentrarsi, per esempio, sui dettagli tecnici di WIPO e brevetto europeo che non dedicarsi alla retorica del capitalismo in crisi.

 

Anche perché, venendo alla terza fantasiosa ipotesi, non esiste alcun sistema alternativo disegnabile a tavolino da sostituire a quello esistente. Quest’ultimo, da sempre, evolve endogeneamente per effetto di milioni di sollecitazioni sociali, innovazioni tecnologiche, cambiamenti demografici e politici, modificazioni nei parametri culturali e valoriali delle persone. Il caso dell’impresa che massimizza il profitto ignorando tutto il resto, l’altro asse su cui Ft ci chiede di concentrarci, ne costituisce un perfetto esempio. Non vi è nulla di prescrittivo nella “teoria” dell’impresa che massimizza la ricchezza dei propri azionisti sotto i vincoli imposti dal mercato e dall’ambiente regolatorio in cui opera. Si tratta di una (francamente banale) osservazione che descrive il comportamento delle imprese che durano nel tempo. Sotto quali vincoli tale massimizzazione avvenga dipende, appunto, da migliaia di fattori fra i quali vi sono, non per caso, i sistemi valoriali dei consumatori (se inquini non compro), dei lavoratori (se devo lavorare ad un fine che disapprovo richiedo un salario maggiore) e degli azionisti stessi (se censuri non mi piego e rinuncio al tuo mercato).

 

Anche in questo tema, come nei precedenti, il capitalismo c’entra come i cavoli a merenda. C’entra l’analisi, caso per caso, dei sistemi di incentivi all’interno dei quali le imprese operano e degli effetti concreti che tali incentivi hanno sulle loro scelte. Effetti che a volte possono essere anche dannosi – i pasti gratis non esistono – ma che occorre comprendere per mezzo d’una analisi non ideologica del funzionamento delle imprese esistenti nel capitalismo di qui ed ora, non in quello immaginato dalle mosche cocchiere della réforme sociale.

 

Michele Boldrin, Washington University in St. Louis e Università Ca’ Foscari, Venezia

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