Ludwig Mies van der Rohe

Mies is more

Michele Masneri

Dalla Bauhaus al modernismo Usa. Cinquant’anni fa la morte dell’architetto probabilmente più influente del Novecento

Nell’agosto di cinquant’anni fa moriva il più altero e ieratico maestro dell’architettura novecentesca, Ludwig Mies van der Rohe. Nato nel 1886 nella più olandese delle città tedesche, Aquisgrana, figlio di uno scalpellino, Mies sarà sempre ricordato per il suo amore per il neoplasticismo (molte piante delle sue case somigliano a quadri di Piet Mondrian o Theo Van Doesburg) e il rispetto per il marmo che abbellisce i suoi capolavori, dal padiglione di Barcellona alle regali hall dei suoi grattacieli americani. Ultimo direttore della Bauhaus chiusa dai nazisti appena insediati al governo nel 1933, Mies non era però socialista o bolscevico come si presumeva fossero tutti i professori della scuola fondata da Walter Gropius, bensì conservatore e forse l’unico architetto d’avanguardia dichiaratamente cattolico che ebbe in Romano Guardini il suo maestro di letture (specie sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino).

 

 

In realtà poi i nazisti contribuirono – come spesso i dittatori più efferati – a corroborare la fama e il prestigio del Bauhaus: nel 1933 Alfred Rosenberg, delegato per Hitler alla Cultura, mandò la Gestapo a circondare l’edificio a Berlino. Mies, direttore della scuola, non si perse d’animo e andò nel suo ufficio. “Bauhaus è un’idea, e non ha niente a che vedere con la politica”, gli disse. “Guardi la sua scrivania, la sua orribile scrivania. Le piace? Io la butterei dalla finestra”. I nazisti dovevano avere dei complessi estetici, perché, invece che essere sparato seduta stante, Mies ottenne di poter riaprire, però a patto di cambiare due cattivi maestri, Ludwig Hilberseimer e Vassily Kandinsky, con“soggetti che garantiscano i principi dell’ideologia nazionalsocialista”. Il rimpasto andò bene, il grande architetto riunì i colleghi, fece aprire dello champagne, e poi chiuse la scuola per sempre. Che rottura, il nazismo: si veniva dagli anni di Weimar, culla magari inflattiva ma così creativa della Germania decadente, e per chiunque avesse qualsiasi talento minimamente artistico: “Non vogliamo nient’altro che chiarezza, semplicità, onestà”; aveva detto Georg von Schnitzler, commissario tedesco, aprendo l’Expo di Barcellona, dove van der Rohe stupiva il mondo col suo padiglione tutto vuoto, ideale show room per le sue chaise longue poi longseller Knoll.

 

Mies fu l’ultimo intellettuale di opposizione a lasciare la Germania, portato da Philip Johnson alla direzione dell’IIT di Chicago dove portò anche il suo braccio destro Ludwig Hilberseimer e così a dar forma al modernismo maturo Usa (ed è subito Mad Men). Lì in America una sua studentessa, Phyllis Lambert, entusiasta, convinse il padre magnate canadese a commissionargli la nuova sede di Manhattan, lo scintillante Seagram Building con la sua piazza in travertino romano (e ristorante Four Season lasciato al fido Johnson). Il suo celebre motto “less is more” venne poi sbeffeggiato da Robert Venturi in “less is a bore”, dimenticando che nell’originale il detto completo era “less is more important”, ma è pur vero che, come ha dichiarato Guido Guidi – autore di un libro fotografico sulle sue opere americane – la sua architettura minimalista è molto difficile da fotografare “perché appunto non c’è niente da fotografare”.

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