Un ufficio WeWork a New York (foto LaPresse)

La telenovela di WeWork

Michele Masneri

Il gruppo americano che offre spazi di co-working ha visto il suo valore dimezzarsi ancor prima di quotarsi in borsa. E il fondatore, Adam Neumann, più che una risorsa pare diventato una zavorra

E insomma il collocamento a Wall Street è stato rinviato di un mese, se tutto va bene; ma intanto WeWork, il gruppo americano degli spazi di coworking, “non è più un’azienda, è una telenovela”, ha decretato The Verge. Il destino della Soho House degli startuppari è dunque in bilico; e cominciano a venir fuori tutte le magagne. Nessuno crede più nei bilanci – la società valeva 47 miliardi, secondo i fondatori e i fondi che l’hanno entusiasticamente supportata, adesso già arrivare a 20 sarebbe miracoloso – ma soprattutto il personaggio del fondatore Adam Neumann, che pareva un giovanottesco valore aggiunto per l’azienda, ora pare un po’ una cialtronesca zavorra. A partire dal suo nome, che ricorre ben 169 volte nel prospetto di collocamento, un record in un contesto, quello siliconvallico, già decisamente superegoico (è anche l’unico prospetto che si sia mai visto a Wall Street ad avere una dedica, peraltro). Su Neumann, ciuffo e aspirazioni televisive, sposato a una cugina di Gwyneth Paltrow, comincia a uscire “la qualunque”: tra cui un viaggio nella natia Israele – scrive il Wall Street Journal – quest’estate, su un Gulfstream a noleggio. Quando stanno per ripartire per gli Stati Uniti, però, l’equipaggio si accorge di un “significativo” ammontare di marijuana nascosto in un anfratto, e si rifiuta di ripartire (Neumann dovrà poi prendere un altro aereo). Tutte le bizzarrie creative padronali vengono viste oggi sotto una nuova luce: dalle metriche utilizzate per intortare i possibili investitori – non si parla di utili ante imposte ma di “utili ante imposte di comunità” – al fatto che Neumann abbia venduto 700 milioni di dollari in azioni prima dello sbarco in Borsa, alla cessione del logo “we”, di cui era proprietario, all’azienda di cui è maggior azionista e amministratore delegato, cioè praticamente a sé stesso, per 5,9 milioni di dollari. Insomma sembra che tutto sia un po’ improntato a un classico “prendi i soldi e scappa”, secondo una narrazione che si sta consolidando in Silicon Valley (basta leggere l’avvincente storia di Uber, nel librone appassionante appena uscito “Superpumped”, del giornalista del New York Times Mike Isaac. Una specie di Wolf of Wall Street della Silicon Valley, che porta anche a consolarsi dei nostri paesi poco innovativi, tipo anche i ricchi piangono).

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