Nella testa di Gates

Michele Masneri

Un po’ sfigato e ossessionato dalla filantropia, il fondatore di Microsoft non ha mai finto di essere ciò che non era. E ora vuole salvare il mondo

Che cos’è il genio? “E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”, secondo l’immortale definizione del Perozzi di “Amici miei”; sono “diecimila ore di impegno, un retroterra solido, tempismo, e un po’ di fortuna”, secondo Malcolm Gladwell, che indagò sul cervello dei grandi innovatori tra cui quello di Bill Gates nel classico manuale “Fuoriclasse. Storia naturale del successo”. Adesso arriva proprio il documentario, sul cervello di Bill Gates, “Inside Bill’s Brain”, appena uscito su Netflix. Tre puntate a indagare neurologia e biografia gatesiana che parte dalla fine, lui ormai il più grande benefattore della storia con la sua Bill e Melinda Gates Foundation, istituita nel 2000 per estirpare i mali dell’umanità – umanità a cui ha dispensato finora 35 miliardi di dollari (ma gliene rimangono un centinaio, il boccon di pane non dovrebbe mancare mai).

 

Come la frase di “Amici miei” si riferiva a un episodio fecale (una pupù adulta in un vasino da neonato), anche la prima puntata del documentario è tutta sul tema, e mostra Gates inquieto a finanziare, valutare, titillare speciali water – a idrogeno, solari, a raggi infrarossi – nel tentativo di portare un sistema di fognature adatto in Africa e debellare così la malaria. Lui va in Cina dove gli propongono vari tipi di water ma costano troppo; lancia un grande concorso per chi inventa il water migliore, a cui andranno 7 milioni di dollari; però il modello di water hi-tech non regge, dovrebbe funzionare ma senza elettricità e senza acqua, e i prototipi costano troppo. Allora cambia strategia e finanzia una fogna speciale che oggi tratta tutta la massa escrementizia di Dakar, processa la cacca e la trasforma in acqua potabile (e lui se ne beve un bicchierone felice, in favore di telecamera). Gates, instancabile, compare anche sul palco di uno degli innumerevoli convegni che presenzia, con in mano un barattolo di merda non d’artista, enumerando alla platea interdetta gli infiniti germi e batteri in grado di scatenarsi dalla umile materia. Però non c’è niente da ridere su questa nuova vita coprolalica del magnate che potrebbe benissimo starsene su qualche panfilo limitandosi a rinominare qualche ospedale o università col suo nome e con esborsi di soldi e soprattutto di energie minimi. In regimi fiscali oltretutto agevolati.

 

 

Invece si dedica anima e corpo a questa sua fondazione che negli anni si è battuta contro vari drammi e malanni tra cui la poliomielite, investendoci mezzo miliardo di dollari, praticamente debellandola (il capitolo sulla polio è entusiasmante ed esplicativo del suo modo di agire: lui finanza vaccinazioni in tutta la Nigeria, ma non si sa come ci sono zone in cui la malattia resiste. Scopre che i suoi vaccinatori non battono alcune lande del paese poiché ignote, non essendoci mappe aggiornate del paese, dunque scatena Gps e satelliti a ridisegnare la carta geografica dello stato, e ne ridefinisce confini moderni). Per il 2020 combatterà il morbo in Pakistan, buttandoci 200 milioni.

 

 

 

 

Instancabile, seleziona cause nobili su cui intervenire, con piglio ovviamente non da Caritas, alleandosi ove necessario con le autorità costituite che poi paiono quasi sempre soprattutto un impiccio. Gates con puro spirito siliconvallico (per estensione, stando su a Seattle) e nerd, prende le cose che non funzionano al mondo e cerca di ripararle. Cominciando con lo studio: il compito principale della sua assistente è preparargli giornalmente un borsone bianco di libri con cui lui poi si aggira nei frequenti spostamenti globali, ed è tutto un riempire e svuotare questo borsone di volumi letti e da leggere, in un ricambio continuo perché lui ha una speciale tecnica per smaltire 150 pagine l’ora. Questo borsone bianco non lo abbandona proprio mai, e viene passato di assistente in assistente, tipo valigetta nucleare. Quando Gates trova un tema che lo interessa, studia infatti tutto il leggibile, prende un sacco di appunti, convoca lo scrivente, se possibile lo assume; così per uno dei temi che più lo appassiona, l’ambiente e l’energia, dopo lo studio affannoso realizza che la soluzione giusta non è convocare dei Friday for Greta: comincia a visitare invece aziende e aziendine già in grado per esempio di produrre speciali spugnette assorbenti CO2 dall’atmosfera. Studia ancora. E poi, alla fine, conviene che l’unica via per abbattere davvero le emissioni sciogli-ghiaccio è il nucleare (e qui Greta sviene): “Un settore in cui non si è fatta innovazione da 25 anni, il tipico settore in cui o arrivo io o non succederà niente”, dice lui, non proprio modesto, e però svincolato da politici, università, baroni e tar, sceglie à la carte team di scienziati anche peculiari con cui lanciarsi in avventurosi esperimenti per correggere le storture del mondo. Si circonda infatti di freak, come in quest’ultima avventura nucleare: magnifici soggettoni come Nathan Myhrvold, ex studente con Stephen Hawking, esperto di asteroidi e autore però di pubblicazioni definitive sulla panificazione (e giudice in una specie di Masterchef), o Lowell Wood luminare del nucleare e astrofisico reaganiano, con cui adesso Gates ha progettato reattori sicuri a prova di catastrofe, e soprattutto in grado di riciclare tutte le scorie delle vecchie centrali, in un progetto definitivo salva-ambiente portato avanti insieme al governo cinese (ma poi è arrivato Trump ed è arrivata la battaglia sui dazi, ed è saltato tutto, e Gates sta rosicando parecchio, come sempre quando la politica si mette in mezzo, come nel caso degli sforzi per la poliomielite, che vengono talvolta vanificati da dittatori africani secondari).

 

 

Accanto a lui in tutte queste battaglie c’è la moglie Melinda, ex manager Microsoft, incontrata a una festa aziendale, reincontrata in un parcheggio aziendale. Anche lei ragazza prodigio, laureata e masterizzata a 22 anni, al primo incontro bravissima lo accanna, al secondo lui le dice: usciamo, dai. Sei libera tra due settimane? Lei gli dice che è poco spontaneo, lui trova il numero e la chiama a casa (non dev’essere difficile, essendo sua dipendente) e le dice: “E’ abbastanza spontaneo, questo?”. Dopo un anno capiscono che si amano, ma “lei aveva altri ragazzi, io avevo Microsoft”, dice lui, che è innamorato soprattutto della sua azienda. “Lei mi amava, e io pure, e pensai: come faremo con la compagnia?”. Ha una lavagna coi pro e contro il matrimonio. E’ scettico. Soprattutto forse a causa di una mamma molto importante con cui ha un rapporto micidiale; lui non nasce scappato di casa ma da una famiglia assai bene di Seattle, William Gates III ha infatti papà avvocato e mamma paladina di cause sociali, oltre che gran frequentatrice di consigli di amministrazione per quote rosa ante litteram. Genitori simbiotici – i più terribili – e molto competitivi, portano il piccolo a campeggi dove ci sono continui trofei, gare, competizioni, corse nei sacchi. Lui viene su nevrotico-agonistico, adolescenza irosa e rimuginativa, pomeriggi chiuso in camera e sbrocchi frequenti contro questa mamma. Terapia di famiglia. Il papà, William II, è praticamente assente, figura di contorno. A scuola William III è, come prevedibile, un genio delle matematiche, e si lega d’amicizia con un altro soggettone però più estroverso, Paul Allen, che a differenza di Gates ha perfino delle passioni (la chitarra, la fantascienza); insieme inventano minorenni un programma per gestire gli orari della scuola. In poco tempo aziende e aziendine dei dintorni verranno a cercare i due adolescenti. Poi il colpaccio: la Ibm li chiama per mettere a punto un linguaggio per i nascenti personal computer. Nasce l’Ms-Dos, nasce la Microsoft, fondata nel 1975 – lui nel frattempo si è iscritto a Legge a Harvard per far contento William II, ma si ritira subito per lanciare la compagnia; il resto è storia – storia anche di questa amicizia tremenda con Allen, che fin dall’inizio non condivide lo stile di Gates, cioè lavorare h24, e dunque dopo un po’ si arriva alla rottura, Allen se ne esce, con un pacco di azioni pazzesche. Non si parleranno mai più, faranno pace solo troppo tardi, non riuscendo a vedersi di persona prima che Allen muoia di cancro l’anno scorso. Il suo yacht, il più grande yacht da esplorazione del mondo, l’Octopus, omaggio alla passione jules-verniana di Allen, che stava posteggiato a Venezia durante i festival del cinema, è ora in vendita per 300 milioni di dollari (Gates non si è mai concesso questi lussi: tra i suoi guilty pleasures ha confessato solo recentemente una Porsche e un aereo privato da 40 milioni, poca roba per chi è stato a lungo l’uomo più ricco del mondo. Semmai ha una casa sibaritica e tutta ecocompatibile, che custodisce manoscritti leonardeschi, sul lago Washington, dove però si cimenta in democratiche gite in canoa con l’incolpevole moglie).

 

 

Col tempo Gates trova un altro comprimario più adatto, Steve Ballmer, compagno a Harvard, malato di business come lui. A lui, che è anche il suo testimone di nozze, darà il comando fino a cinque anni fa. Gates lascia infatti gradualmente tutte le cariche dedicandosi alla megafondazione lanciata nel 2000 insieme alla moglie, forse per ricompensarla anche di una vita non proprio brillantissima nonostante i trilioni – lui sempre al lavoro e lei chiusa nella casa sul lago da 125 milioni di dollari.

 

 

Lui in definitiva pare freddo, distante, in fondo buono, animato da devastante competizione, a carte e a tennis, mentre lei sembra dotata di umanità meno ripiegata. Cosa ci sia nel di lui cervello non si capisce, forse non è neanche interessante alla fine. Lei dice “il caos”. C’è anche un po’ di romanticismo da cumenda: nella biblioteca inestimabile di casa c’è inciso un passaggio del “Grande Gatsby” che piace tanto alla coppia. E poi lui è affidabile. Come Windows, anche più stabile. E non serve riavviarlo, è in moto perpetuo. Fanno in fondo una vita molto riservata, sotto gli auspici di Warren Buffett, il leggendario nonnetto che insegna a loro e agli americani come investire vivendo in sobrietà quasi pauperistica. Con Gates dieci anni fa fondano Giving Pledge, il club dei supermiliardari che lasceranno almeno metà delle loro ricchezze in beneficenza. Gates dirà in una famosa uscita che se lasciare qualche milione ai figli fa loro del bene, lasciargli dei miliardi li rovina, così ai tre ragazzi Gates – non si sa se d’accordo, nel film e nella vita comunque non si vedono mai, per scongiurare eventuali rapitori forse non al corrente delle scelte testamentarie di famiglia – andranno solo spicci e “un’ottima educazione”.

 

 

Lui (Gates) piange due volte. Quando muore la carismatica mammà, e soprattutto quando vengono assolti dalla causa antitrust che gli spezzetterebbe l’azienda. Però, che bilanci: dato più volte per spacciato, additato come monopolista, o tristo ragiunatt dalle menti più brillanti della Silicon Valley, sul lungo periodo se le è magnate tutte. La sua compagnia è la più ricca del mondo, 1 trilione di dollari, più di Apple. I suoi prodotti dopo l’eroismo degli inizi e la damnatio memoriae degli anni Duemiladieci oggi paiono essere di nuovo abbastanza cool. Certo, nel documentario si vedono folle oceaniche su pellicola sgranata ad attendere l’apertura di negozi mattutini per accaparrarsi la copia di Windows 95, pare pleistocene. Però l’epoca Windows è esistita, ne abbiamo le prove. Poi è arrivato Steve Jobs con le pubblicità che comparavano l’uomo-Microsoft con l’uomo Apple, e l’uomo Microsoft era un Fantozzi, era l’uomo Lebole, mentre quello Apple era il creativo sopito in tutti noi.

 

 

“Non posso certo confrontarmi a lui, era un grande ammaliatore di folle”, recentemente ha detto Gates del rivale in dolcevita. Gates era Verdone, Jobs Manuel Fantoni. Poi sono arrivati anche i ragazzotti di Facebook con la generazione dei nuovi tycoon, e Gates sembrava davvero un dinosauro. Però poi basta aspettare: Mark Zuckerberg già adorato cinque anni fa oggi è considerato un teppista insopportabile. E oggi, dopo il decennio dell’iPhone, quasi nessuno si è messo in fila ad attendere il modello undicesimo, e la trasgressione da Apple è un po’ diventata quella per famiglie da Jova Beach Party, il Burning Man con la sciarpetta.

 

Vuoi vedere che alla fine aveva ragione lui, il tristo ragionier Gates? Non ha mai fatto finta di essere ciò che non era. Di sicuro ha fatto degli errori, li ha ammessi recentemente – soprattutto non aver sfondato nel campo dei telefoni, lasciando spazio a Android. Però alla fine coi 70 miliardi che lascerà in beneficenza si estirperanno malanni e carestie, mentre del rivale carismatico Jobs che si è curato il cancro con le erbe rimarrà l’iPhone trentaduesimo. Richiesto se gli seccasse esser diventato il numero due dei ricconi mondiali, dietro al vicino di casa Jeff Bezos, Gates ha risposto: “Pensavo peggio, si vede che non sto dando via i miei soldi abbastanza velocemente”. Una frase anche abbastanza spiritosa, visto il tipo.