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Fenomenologia Uber. Elogio del cambiamento (quello vero)

Michele Masneri

Oggi l'azienda si quota in Borsa, tra qualche timore e una certezza: i trasporti sono cambiati per sempre

Roma. Chissà come andrà, questo collocamento in Borsa di Uber, la app ammazza-taxi che ha cambiato le nostre vite (o almeno quelle dei fortunati di altri paesi). Speriamo che non vada come quella di Lyft, la rivale che si è quotata la settimana scorsa e ha già perso il 30 per cento del suo valore. Storia interessante. Offre lo stesso servizio, cioè trasporti taxistici ma con app e carta di credito, ed è nata però dopo: Lyft aveva capito subito cosa non fare, approfittando delle goffaggini della rivale, dunque intanto donando gran soldi alle associazioni anti Trump, posizionandosi come concorrente “di sinistra” anche se tra i suoi azionisti ci sono molti trumpiani tra cui Carl Icahn, leggendario speculatore. Per distinguersi dai cattivi di Uber, all’inizio Lyft issava anche un gran baffone rosa di peluche su cofani e radiatori. Uber, invece, simbolo degli unicorni alfa, ha perseguito sempre il suo disrupting senza molto galateo: e il suo fondatore Travis Kalanick, quarantenne losangelino, palestrato e un po’ aggressivo, è stato poi accusato di tutto: di sessismo, di brutalizzare i dipendenti, di organizzare bunga bunga (pochi ricordano che il #MeToo è cominciato proprio a Uber, prima di arrivare a Hollywood). La compagnia ha pagato un prezzo alto anche per questo stile molto rustico: venendo bandita in molte parti del globo. Alla fine Kalanick è stato estromesso e la compagnia oggi finalmente ha cominciato a investire massicciamente in pubbliche relazioni, ha tante donne nel board, e sta ritrovando una faccia pubblica. Vedremo come andrà: nel frattempo però Uber non solo ha cambiato le nostre vite ma è anche diventata, come Airbnb, uno straordinario ammortizzatore sociale: là i possessori del mattone inutilizzato; qui, proprietari di macchina e patente che cercano un lavoretto part o full time. Soprattutto Uber Pool – la macchina condivisa – ha cambiato le abitudini: con queste auto che ti vengono a prendere e poi si fermano a raccattare umanità varia; scelta risparmiosa, un quarto di un normale taxi, all’inizio ti consente di socializzare (a San Francisco, la mattina, grosse segretarie nere col trucco appena fatto e bibitoni di caffè americano che ti sbrodolano addosso; la notte, fricchettoni vari che ti si appoggiano, tra una disco e un dive-bar; il weekend, passando dal Financial Center, soprattutto, managerini e founder e cofounder verso l’aeroporto).

 

Uber è interessante soprattutto nell’interazione tra clienti e guidatori: ogni uberista, cioè autista di Uber, non lo fa come primo lavoro, ma ti scorrazza per inseguire un suo progetto. C’è l’aspirante attore, l’importatore di acque minerali, lo psicologo-startupper; al contrario di quanto si dice guadagnano spesso bene, anche 4 mila dollari al mese, non sono proletarizzati, spesso sono “sans papiers” che possono fare solo questo lavoro e dunque è uno straordinario mezzo di integrazione. I tassisti americani hanno accettato l’avanzata di Uber prima lottando, poi rapidamente arrendendosi: consapevoli di essere diventati una nicchia, tipo vinile.

 

In realtà dopo un uso intensivo di Uber si comincia a provare una certa nostalgia per il vecchio cab giallo. Il fatto – che nessuno capisce – è che il concorrente di Uber non è il taxi, ma sono i mezzi pubblici, che a San Francisco, dove è nata, infatti non prende più nessuno, tranne i più disperati. Tra spendere 5 dollari di Uber Pool e 2 di metro fetida, cosa scegliereste? Rispetto al tassinaro l’uberista è comunque amabile, vi dà la bottiglietta d’acqua e il cavetto del telefono, non vuole la mancia: e però non ha la minima idea di dove si trova. Provate a chiedergli che quartiere è questo, dov’è la stazione. Non lo sa. L’uberista infatti viene da fuori città, specialmente nel weekend, fa la giornata e poi torna a casa, nei suoi sobborghi. Non si cura della geografia perché tanto ha il Gps. Le rare volte che il segnale salta, egli è perduto. L’uberista è infatti un mero giratore di volante e pigiatore di pedali, oltre che conversatore. L’uberista ha poi un altro difetto: ti recensisce. Come si sa infatti il lato più inquietante di tutta la sharing economy è quello della review: “Tu quanto hai?” è stato il tormentone a un certo punto a San Francisco, e non si riferiva a un’epidemia di febbre. Da qualche giorno Uber aveva reso pubblici i nostri rating. Quello cioè che gli uberisti pensano di noi utenti. Altro che il cliente ha sempre ragione: gli uberisti ti giudicano. Al primo posto nel non gradimento c’è lo sbattere di portiera. Poi, l’inzaccherare il tappetino con le scarpe infangate. E poi, il più ambiguo e inquietante: il cliente che non fa conversazione. “Trattalo come un amico. Staresti muto tutto il tempo se fosse un amico che guida?” scrive un sito di bon ton uberistico. Anche sedersi dietro è considerato classista. La relazione con l’uberista è insomma molto complicata, ed è un altro elemento che ti fa talvolta rimpiangere il taxi. Poi però uno va a Milano e arriva il tassista leghista che ti imbruttisce già con 9 euro caricati, e viene voglia immediatamente di tornare a Uber. E magari di comprarti anche le azioni.

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