La Torre Velasca, "situata nell'omonima piazza, esprime tutta la forza e il Razionalismo italiano" negli anni del Dopoguerra (foto LaPresse)

Un grattacielo da bere

Michele Masneri

La Torre Velasca del “Vedovo” di Sordi, appena rivenduta, è di nuovo simbolo del boom milanese

Chissà se il bilionario novantenne Gerald D. Hines, texano di Houston, fondatore dell’omonimo colosso immobiliare che si è appena comprato la Torre Velasca, avrà mai chiesto alla moglie “Fai colazione in villa o in grattacielo?”, come Alberto Sordi alla consorte capitalista, naturalmente Franca Valeri/Elvira nel “Vedovo”, di cui ricorre quest’anno il sessantesimo (1959). Hines ha costruito il nuovo mito milanese coi grattacieli di Porta Nuova, poi venduto ai sovrani del Qatar, e pagherà adesso 220 milioni per mettere le mani anche sul palazzone identitario vero protagonista di quel film.

Doveva essere inizialmente d’acciaio, ma poi si scelse il cemento armato che costava meno, e così cambiò anche il design


La Velasca, ultimata un anno prima (1958), troneggia fin dai titoli di testa quando Sordi si confida coll’aiutante marchese Stucchi: “Ha detto di nuovo lampadina”, invece di sigaretta, segno di un certo breakdown; e gli parla di sogni come a un analista (distinguendo tra sogni in bianco e nero e sogni a colori). La Velasca, simbolo di status (della moglie), e di malessere (del marito) è sempre stata come si dice oggi divisiva. Inventata dal consorzio d’architetti araldici Bbpr, tra cui Barbiano di Belgiojoso, Rogers direttore di Casabella e cugino del Rogers Pritzker e lord, ha suscitato da subito aspre polemiche per quella forma da fungo lombardo in contrasto con l’international style vigente e fiorente in quegli anni: un fungo, appunto, con il sopra più largo del sotto, poiché le abitazioni (dal 19° al 25° piano) necessitavano di superfici più ampie rispetto agli uffici aziendali (dal 2° al 10° piano) e agli studi professionali (dall’11° al 17° piano). Le settantadue abitazioni, da due a sette vani più servizi, erano tutte dotate di veranda o terrazzo e di arredi fissi su misura (armadi, cucina ed elettrodomestici) per le nuove borghesie che sarebbero entrate disinvoltamente nelle loro nuove vite tecnologiche e aeree. Era un’Italia nuova, e nuova anche la forma dell’edificio, in realtà casuale: doveva essere inizialmente d’acciaio, ma poi si scelse il cemento armato che costava meno, e così cambiò anche il design (doveva avere una pelle di vetro, come un qualunque grattacielo, invece venne fuori una specie di mazza ferrata delle membrature neogotiche, con guglie e tetto a falde). Uno strano manufatto, sforzesco e visconteo, che ispira sentimenti violenti. “Omaggio a Milano”, scriveva Rogers, compromesso tra “le energie autoctone” e “le correnti che formano il patrimonio universale del pensiero”. Ogni tanto viene definito il più brutto grattacielo d’Italia o del mondo, per chi ama questo genere di classifiche.

La Velasca ha sempre ispirato il delitto. Il processo Fenaroli Roma-Milano e l’inizio del circo mediatico attorno alla cronaca


Divenne però subito un simbolo milanese, a partire da quel nome gaddiano-manzoniano (dall’omonima piazza intitolata al governatore spagnolo Juan Fernàndez de Velasco). Qualcuno definì quello stile “neoliberty”, come il critico inglese Reye Banham che parlò di “ritirata italiana dall’architettura moderna”; tanti si indignarono, come Bruno Zevi che detestava quell’edificio e quella corrente e quell’ansia storicistica che rappresentava. Di sicuro però un simbolo di Milano poteva essere solo verticale: Milano ha avuto i primi grattacieli d’Italia e ancor oggi i più alti, è un primato a cui non riesce a sottrarsi, non c’è bisogno di tirar fuori Freud. Mentre Roma, oggi schiacciata dal confronto, è sempre rimasta orizzontale; ci sono fior di studi, sull’orizzontalità romana. Anche Luigi Moretti, che ha fatto grattacieli dappertutto, a Milano fa torri bestiali e a Roma si esprime sempre e solo nella palazzina. Quando Renzo Piano ha tentato di fare un grattacielo all’Eur la prima cosa che gli hanno imposto è stata di tagliargliene un pezzo (poi tutto). Al progetto di stadio della Roma, la prima cosa che hanno tolto son le torri. Insomma a Roma latita l’erezione, mentre a Milano è tutto un innalzarsi (anche l’epicentro di milanesità attuale, la Fondazione Prada, non si è placato finché non ha avuto la sua torre).

E che duelli, che confronti, fin da subito, a Milano, come in un grande spogliatoio urbanistico. Quando nel 1961 la Pirelli finì il suo grattacielo by Giò Ponti, per anni il più alto di Milano e d’Europa coi suoi 127 metri, invase i giornali mondiali di pubblicità, col risultato che Walter Gropius lo copiò in pieno per il suo Twa Building di New York (oggi MetLife). Però oggi la Regione Lombardia ha voluto farsene uno più lungo, cioè più alto, di grattacielo – “Palazzo Lombardia”, 161 metri, con una bella forma concava-convessa, il primo di questi roaring twenties milanesi.


Qualcuno definì quello stile “neoliberty”, come il critico inglese Reye Banham che parlò di “ritirata italiana dall’architettura moderna”


Come sessant’anni fa: la Elvira imprenditrice del “Vedovo” era poi ispirata a un personaggio della Milano più ruggente, Anna Bonomi Bolchini, che dai grattacieli veniva – il padre Carlo Bonomi le aveva lasciato in eredità cinquemila appartamenti, e lei rispose fondando la Bonomi-Comolli che eresse poi il Pirellone.

Ma subito, ansia: due anni prima insieme alla Velasca fu ultimata la Torre Galfa, più comune come design e ancor più inquietante. In “La vita agra” di Carlo Lizzani (1964) tratto dal romanzo di Bianciardi, il povero protagonista Luciano, interpretato da Ugo Tognazzi, catapultato nel logorio dell’industria culturale sogna di far saltare in aria il “torracchione di vetro e cemento” simbolo del boom; mentre Bianciardi in persona veniva licenziato dai Feltrinelli per scarso rendimento; e gli editori a loro volta avevano una villa a San Siro che però non ce la faceva a essere solo villa, si slanciava verso l’alto (si chiama il “Miracielo”). Carlo Feltrinelli, papà di Giangiacomo, era poi presidente del Credito Italiano, dunque un po’ papà dell’UniCredit protagonista con la sua torre gugliata del nuovo skyline, – mentre il nuovo quartier generale Feltrinelli, compreso la Fondazione, di Herzog & De Meuron, sta a Porta Volta.

Intanto Tognazzi-Luciano vendeva l’anima al diavolo e diventava un felice copy pubblicitario. E il grattacielo milanese è legato molto anche alla réclame e alla sua industria: “Susanna tutta panna”, regia di Steno (1957), è un Mad Men caseario: una giovane pasticciera, Susanna, lavora nel laboratorio di dolci della sua famiglia e deve difendersi sia dal fidanzato geloso sia dalla concorrenza che cerca di conoscere la ricetta della rinomata torta alla crema che porta lo stesso nome della giovane (!). Il film è utile per capire certe dinamiche. Intanto è presente il tema centrale della follia: il commendator Botta (che gioca con l’assonanza con Motta) è un industriale dolciario che “sta diventando matto” perché non riesce ad avere la ricetta di questa torta (“diventare matti” è un termine molto milanese, soprattutto se legato a una questione da risolvere o un affare da concludere). Non dorme la notte, nel suo grattacielo col suo pigiama con la B ricamata sul taschino, e chiama la pasticciera che in una delle più belle telefonate della storia del cinema italiano gli dice “caro il mio sciur comendatur” che la ricetta non gliela dà, né a lui né ai suoi concorrenti.

Sono del resto gli anni del trionfo della merce lombarda e brianzola; della fiera campionaria che espone gigantografie di caffettiere, bottiglie di liquore, interi villaggi Galbani. “Susanna tutta panna” – il titolo verrà poi usato dalla Invernizzi dieci anni dopo per un formaggino e un pupazzetto che trionferanno in Carosello, invenzione milanesi e non romana – è poi il film sulla pubblicità, su Milano e dunque sui grattacieli. Si apre infatti con un carrello sulle insegne di piazza del Duomo, e la voce fuori campo che irretisce: “Questa è Milano di notte. I grattacieli non stanno mica solo a Londra o a New York” (e poi si entra in camera del commendator Botta che non dorme per la sua torta).

Adesso, nella Milano del nuovo boom, mentre Roma non sa più cosa tagliare e abbatte dunque alberi anche centenari, lo status si misura ancora dai grattacieli: che finiscono direttamente nelle stories di Instagram senza passare dal cinema o quasi; i tassisti ti dicono “lì è dove abitava la Ferragni”, passando dal Bosco Verticale (dove però nella serie Skam Italia il protagonista adolescente, fragile e romano, sbrocca). Nelle sue stories da Residenze Porta Nuova il guru dell’Instagram dei bastioni Paolo Stella fa dei pigiama party forse sponsorizzati; il cielo non più nebbioso è traforato di torri: c’è l’Unicredit, la Solaria e la Diamante, la Allianz la Generali e la Libeskind, ognuno col suo stile e con le sue vite dentro e magari con mariti che progettano uxoricidi.

La Velasca infatti ha sempre ispirato il delitto. “Clic. Nell’appartamento numero 89 all’ottavo piano della Torre Velasca, Mario Pozzo, anni 47, editore del mensile di moda Venus, maggiore azionista di Radio Stella, proprietario della scuderia di cavalli Vercingetorige, abbassa la leva off del suo hi-fi” – siamo in “Sotto il vestito niente”, bestseller meneghino di grande successo con derive poi cinepanettoniche anni Ottanta (Vanzina, figli di Steno, milanesi).


Lo status si misura ancora dai grattacieli: che finiscono direttamente nelle stories di Instagram senza passare dal cinema


Ma il film della Velasca rimane “Il vedovo” (di Dino Risi, milanese). “Commedia grossolana, male sceneggiata e peggio diretta”, scrive il Corriere della Sera il 29 novembre 1959. “Il film è girato a Milano, ma la città non ha alcun motivo di compiacersene”. E’ il primo che Risi fa insieme al suo sceneggiatore geniale Rodolfo Sonego. Rappresenta il primo delitto moderno italiano, l’omicidio Fenaroli dell’anno prima. E’ un delitto misto milanese-romano. Delitto in presa diretta, ready made. Il 10 settembre 1958 a Roma in un appartamento al Nomentano la cameriera trova la padrona riversa. C’è un movente clamoroso, una polizza d’assicurazione da 150 milioni di lire in caso di morte violenta, beneficiario il marito, che però sta a Milano. Il Fenaroli, self made man, geometra che si dice ingegnere, vuole partecipare al boom come tutti: ma non gliela fa. Ha un sacco di debiti e preferisce far fuori la moglie, e riscuotere la polizza (è anche l’anno in cui viene aperta l’autostrada del Sole).

E’ delitto industriale 2.0, delitto capitalistico e realizzato con le migliori infrastrutture dell’epoca: il killer, incensurato, assunto apposta, a progetto, deve andare a Roma e ammazzare, e basta. Da Milano scende a Roma in aereo col Malpensa-Ciampino (perché Fiumicino non è stata ancora costruita). Poi torna su con l’ultimo treno notturno da Termini. Milano-Roma in giornata, come si fa poi noi oggi. Ma senza snack dolce o salato (oggi il delitto crollerebbe sotto i micidiali annunci nel nuovo patois ferroviario demente – “stiamo aspettando l’autorizzazione del gestore dell’infrastruttura”, “stiamo partendo con un maggiore tempo di viaggio di 148 minuti rispetto al previsto”, per non nominare mai la parola fatale, “ritardo”).

Il processo Fenaroli fu il primo grande cortocircuito tra tv e realtà. Un “circo mediatico”, 20.000 persone assiepate fino alle 5 di mattina davanti al tribunale di Roma, bibite e panini e Gassman con Anna Magnani tra il pubblico ad attendere la sentenza. La Rai appena nata. Folle divise tra innocentisti e colpevolisti. Cortocircuito totale tra realtà e fiction: il film esce un anno e mezzo prima del verdetto. Gli avvocati pescano nella commedia: si disse che l’arringa dell’avvocato, Nicola Madia, fosse presa dal “Processo di Frine” di De Sica di qualche anno prima (“chi sei tu, Raoul Ghiani? Quante volte te l’ho chiesto? Quante volte me lo sono chiesto. Sei lo strangolatore rapido, tecnico, puntuale di via Monaci? O il bonario e mansueto ragazzo di viale Coni Zugna?”).

E chi era poi il vedovo, anzi aspirante vedovo? Un romano che voleva farcela a Milano, come tanti oggi, che magari faranno i corsi da influencer. Fu uno dei primi film a mettere a fuoco il clash culturale e la nevrosi nata dal confronto Milano-resto d’Italia. Chi meglio di Risi? Psichiatra, milanese, figlio del medico della Scala. E il romano a Milano qui finisce direttamente in clinica psichiatrica. “Dopo cinque anni di lavoro consecutivo, tra assegni scioperi cambiali”, lo spiega subito, all’inizio, Sordi, quando va a chiedere un nuovo prestito, ha avuto un crollo. Il direttore della banca gli dice: “La facevo ancora in clinica”. “La cosa più originale del ‘Vedovo’”, scrisse Tatti Sanguineti, “è l’apparizione della nevrosi e dell’antisemitismo come fatto nevrotico”. Sordi-Nardi infatti è anche un po’ leghista, sbaglia tutto, fa speculazioni farlocche ma alla fine “è sempre colpa loro, degli ebrei”. Come oggi Salvini con Soros (poi gli vengono le coliche). La moglie Elvira, però, imprenditrice scafata e globalista, gli risponde: “tu parli male degli ebrei perché loro sanno fare gli affari e tu no”. Il signor Hines, 94 anni, edificatore della nuova Milano, ha sposato una Dorothy Schwarz erede della Fao Schwarz colosso dei negozi di giocattoli. Non è dato sapere se abbia mai pensato di farla fuori.

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