Il poeta, scrittore e critico letterario Edoardo Sanguineti in uno scatto del 2000

L'avanguardia del poeta

Ugo Nespolo

Pensieroso, meditativo, persino maestro di ritmo. Provocazione letteraria: c’è un altro Sanguineti

Il Quinquettino in cinque movimenti attacca deciso con l’ondeggiare sexy della macchina da presa quel suo ritmico “avanti e indietro, che divertimento / tocco e fuggo, m’accosto e m’allontano: sei costì, sei costà che godimento / il megamicro e l’ipersupernano”. Se la ridacchia enigmatico Edoardo Sanguineti appollaiato – gambe incrociate – su un alto sgabello simil americanbar, in un oscuro anfratto di una più che misteriosa e notturna Mole torinese tutta Museo del Cinema e vertigini antonelliane da brividi freddi.

 

Pensieroso, meditativo ma a suo agio il poeta – sigaretta spenta tra le dita ossute – sta lì a trafficare senza imbarazzi linguistici di dolby, effetti notte, blueback – di Truffaut e Godard è naturalmente maestro da tempo immemore – sa tutto di passo uno, fondu, dissolvenze da nero e persino assolvenze e fade-in, giù giù fino al cross-fade in un territorio che dalla grammatica del cinema straborda con molte ragioni in ambiti semantici di cui, si sa, il poeta è maestro.

Il gioco come radice di ogni cultura dell’organizzazione sociale, fondamento di ogni atteggiamento d’avanguardia

 

Quasi come nelle extralucide conversazioni con Giuliano Galletta non si possono contare tempo, ore e luoghi foresti o casalinghi, viaggi, treno più auto per disquisire, spesso mugugnare, di avanguardie, stalinismi, postsurrealismo e Sessantotto in turbamenti situazionisti, filosofie benjaminiane e sovente erotismi letterari o cinematografici. Però di arte e artisti sempre e per sempre senza patire di sentirsi sovrastati, sommersi da profondità, arguzia di una cultura dai confini enormemente dilatati. Sconfitti spesso a fil di logica, compagni eterni in luce d’ironia, ammiccamenti, paradossi, percorsi laterali. Per questo, in questo luogo, altro non si pretende fare se non cavare una narrazione che ci si augura almeno lucida, personale e capace di dar spazio al lato clownesco dell’artista, al personaggio irridente e malinconico, all’autoironico camuffamento totalmente starobinskiano che travolge la severità dello studioso, del materialista storico per occuparci della luciferina e danzante figura d’artista eclettico.

 

Converrà citare Sandro Montalto che, con Tania Lorandi, tanto ha seguìto e penetrato il flusso creativo di Sanguineti nel mettere in evidenza nel poeta l’aspetto mitizzante del gioco “quando è associato all’onirismo e non si premura di nascondere le pulsioni primitive dell’uomo”. Il gioco, proprio come lo intendeva Johan Huizinga, un gioco serio quasi come radice di ogni cultura dell’organizzazione sociale, un fondamento costante come sostanza di ogni atteggiamento d’avanguardia ed evidente in particolare nel situazionismo debordiano, la faccia ludica di un’ideologia radicale e politica nelle parole di Constant Nieuwenhuys quando afferma che l’Homo ludens “creando il suo territorio da esplorare, si occuperà di esplorare la propria creazione”. L’idea-gioco di comporre “obsolescendo” cioè lavorare con versi volutamente già passati come per evitarne l’invecchiamento fa tornare alla mente il meccanismo citazionista che ha tanto da fare con la tattica molto abusata poi dal postmoderno.


Della Galerie Vivienne mi son rimaste “tre lunghe scatole di cartoline illustrate, tutte scritte, con i francobolli: tutte da leggere”


 

In Sanguineti brilla e scintilla l’atteggiamento comico-apocalittico e quel momento cinico, pozzo senza fondo in cui svanisce poi davvero ogni avanguardia.Eccolo qua il concetto su cui dannarsi da sempre proprio come si è fatto noi da giovanissimi in quei primi anni Sessanta a far mattina a rimbalzare umori, citare esempi, incatenarsi alla tirannia del nuovo, a occhieggiare – dopo i funerali dell’informale – l’arrivo spiazzante del travolgente trionfo delle merce nel pop americano.

 

Sanguineti già nel 1965 sfoderava convinzioni più che lucide sopra l’avanguardia. Il saggio contenuto in “Ideologia e Linguaggio” non lasciava dubbi sulle sue convinzioni, le sue analisi ancor oggi affondano la lama nel corpo molle e ambiguo delle ideologie del far arte. Arte come Merce innanzitutto, l’inevitabile prostituzione dell’artista di cui attraverso Benjamin parlava Baudelaire, prostituzione in relazione al mercato in una sorta di doppio movimento interno all’avanguardia. “Questa esprime infatti, insieme e proprio con i medesimi gesti, anche ove ne abbia imperfetta coscienza, o nessuna coscienza affatto, l’aspirazione eroica e patetica a un prodotto artistico incontaminato, che possa sfuggire al giuoco immediato della domanda e dell’offerta, che sia insomma commercialmente impraticabile…”. Si sa che proprio dall’inizio parte la pretesa dell’artista d’essere in grado di offrire “un feticcio più misterioso di ogni altro, l’offerta di una merce per la quale non esista alcuna domanda riconosciuta”. E’ proprio la presunta assenza di domanda che dovrebbe garantire “innocenza e lealtà come se potesse per sé togliere alla merce, oggi, domani e sempre, il suo carattere di merce”. Proprio l’avanguardia, quella di cui oggi si è persino estinto il vocabolo se non come citazione storica, si erge come può contro l’idea di mercificazione ben sapendo che quella è inevitabilmente la strada che la rende vana e impotente e che la fa precipitare indistinta merce tra le merci.

L’arte come merce. L’inevitabile prostituzione dell’artista di cui attraverso Benjamin parlava Baudelaire

 

 

Tanto si è già detto e scritto di come il Museo sia poi la tomba eterna di vitalità e forza di ogni gesto d’avanguardia. “L’ingresso del dadaismo (come di ogni altra avanguardia) tra le pareti asettiche del museo, è parallelo e complementare al suo ingresso sopra i sudici banchi del mercato”. Museo e Mercato sono edifici contigui e di facile comunicazione “il prezzo e il pregio si identificano”. Anni quelli in cui ogni giovine artista pensante viveva attanagliato dall’idea di non saper sciogliere queste contraddizioni sperando il gesto artistico ricco, vitale e sofferto dotato per sempre della sua carica di significanza, di unicità e di rivolta. Si sperava di poter evitare che l’arte tutta potesse trovare una qualche via d’uscita – almeno laterale – al suo implacabile destino di generico decoro, di buon investimento, di optional, di sterilità giullaresca. Oggi che tutto si è avverato nella maniera più plateale e volgare, anni in cui trionfa l’assioma del “ciò che costa vale”, la lotta creativa, il dibattito estetico stesso sembran volti anch’essi a legittimare innanzitutto la crescita dei prezzi prima di precipitare le opere elette, del tutto arbitrariamente, nell’asfissiante e stereotipato museo in forma di designato feticcio.

 

Tutta l’opera e la persona stessa di Sanguineti ha molto da fare con quello che Umberto Eco definiva figura del pensiero quell’ironia che, come ricordava il poeta stesso, è “un fondamento della cultura romantica. Il gioco degli artifici culturali attraverso i quali l’artista opera e quindi si dota di una consapevolezza ironica del proprio lavoro”. L’idea è infine quella, dopo essersi resi conto “dell’impossibilità dell’epica, che muore definitivamente ma anche del tragico stesso, a spingersi verso modalità del grottesco”. Si parla di quel grottesco che in “Guernica” Picasso trasmuta in tragico, o di quel grottesco di cui è intrisa l’opera di Francis Bacon che con quel suo osannato gesto tragico fatto di un’ossessiva reiterazione di temi e modi, a me sono sempre parsi piuttosto di maniera, rischia di frequentare gli appartamenti del tragicomico.

 

Finita con strascichi senza fine l’agonia delle storiche avanguardie, ancora negli anni Sessanta qualcuno viveva la splendida illusione di produrre anti merce dal retrogusto tutto culturale osannando il miracolo di quelle che io vorrei chiamare avanguardie laterali, quelle che Sanguineti ha in più di un gesto e in tempi differenti vissuto e popolato. Penso all’elogio del futile e dello scarto in Fluxus anche come degrado e privazione di senso di matrice dada, la negazione estremista in chiave radical-politica del Situazionismo alla Debord con le sue vive radici conficcate nel terreno antisurrealista e già concretamente lettrista. Oulipiano, di quell’OuLiPo, Ouvroir de Littérature Potentielle fondato nel 1960 da Raymond Queneau e dunque in un lampo affascinato da quella Scienza delle soluzioni immaginarie che è la Patafisica in cui egli troneggia con le aleatorie cariche di Trascendente Satrapo e Faraone Poetico dell’Institutum Patafisicum Mediolanense.

 

E’ proprio il Baj quello che occhieggia dalle incalzanti e oniriche pagine del “Capriccio Italiano” del 1963 di cui Luciano Anceschi poteva scrivere “… una letteratura nuova, fuori dalle idolatrie convenute… c’è quel che si dice vitalità, inquietudine, verità in una sorta di moderno, inatteso barocco”. E’, credo, proprio Baj che gl’inculca, in fondo, la stessa inquietudine come mera libertà che brilla e combatte il dogmatismo dei folli che “si prendono per Dio!”. “Faustroll” sancisce: Primo: la Patafisica è il campo della conoscenza che si estende al di là della metafisica; secondo: la Patafisica è la scienza che si occupa dell’immaginario e delle eccezioni. Immaginazione è sinonimo di essere: Imago ergo sum. E’ proprio la Patafisica che incita a cancellare le regole del gioco e distruggere quel “poetese” che affligge la poesia proprio come suggeriva Alfred Jarry “non avremo distrutto nulla fino a quando non avremo demolito anche le macerie!”.

 

Baj predicava la Patafisica essere un salvavita indispensabile alla sopravvivenza psicologica dell’immaginario. Sanguineti era conscio del fatto che quando il Collegio di Patafisica sarebbe uscito dall’occultamento in cui si era volontariamente confinato, proprio come il Duca d’Auge de “I Fiori Blu” di Queneau ci saremmo guardati attorno per considerare la situazione storica, come scriveva Brunella Eruli. Tutti quelli toccati dalle grazie della luce verde della Patafisica si troveranno a ridere con Boris Vian, Duchamp, Prévert, Picasso, Picabia, Ionesco e tutti gli altri e – son certo – Sanguineti metterà ancora in fila quei suoi versi sghembi di rinnovata energia e malinconica provocazione come gioco tosto, quello stesso che racconta la sua vasta attività poetica dedicata agli artisti.

 

Basterà tornare a leggere quei suoi “Pretesti ecfrastici” tutti dedicati alla rilettura delle opere d’arte per ricostruire alcune dinamiche del farsi nel testo e nel quadro sino a scoprire che lo scambio tra il poeta e gli artisti data dagli anni Cinquanta ovvero dalla nascita del Movimento nucleare e del suo manifesto, seguito a breve dal Manifesto di Napoli dove Enrico Baj parlava di un’aperta dichiarazione di guerra all’astrattismo. Nel 1958, con la collaborazione al terzo numero de Il Gesto, Sanguineti con Fontana, Dorfles e Balestrini accentua e approfondisce il suo interesse verso l’arte e gli artisti per renderlo poi intenso e continuo sin dalla nascita del Gruppo ’63. Dal primo al sei settembre 1965 i rapporti fra le nuove e radicali idee del romanzo sperimentale si sposeranno con grande evidenza alle arti figurative a Palermo in concomitanza con la Settimana internazionale di Nuova Musica e con la mostra di pittura Revort 1.

 

Ne son quasi certo. Fu un dono, quello che Sanguineti volle farmi una sera verso la metà degli anni Settanta. Un libro modesto nella forma ma prezioso e introvabile: la sceneggiatura figurata del film “Entr’acte”, manifesto dell’avanguardia surreal-dadaista del 1924 di René Clair. Quel libro suggellava le reciproche passioni per il cinema sperimentale, se non per il cinema tout court. Lo racconta ad Antonio Gnoli in “Sanguineti’s Song”, di come il cinema contenga una quantità di lessico e di come difficilmente ci si può sottrarre al suo gesto. Nel Novecento saltano in aria i codici sintattici, anche per effetto del cinema, si è passati al montaggio che diviene adesso la nuova sintassi. Il regista come il pittore cita e – in qualche modo – costruisce attraverso la tecnica del montaggio e dell’assemblaggio. Del videoclip Sanguineti dice: “Sarei disposto a fare l’apologia” e lo dice, purché ben fatti, “con la rapidità di montaggio vertiginoso”. La ragione di ciò non può stare che nella colta memoria del cinema sperimentale e surrealista, quella di Man Ray, Fernand Léger, Germaine Dulac e soprattutto nell’amato Buñuel, per quei film totalmente insensati che sono “Un Chien Andalou” e “L’âge d’or”.

Un dono che Sanguineti volle farmi una sera verso la metà degli anni Settanta. Un libro prezioso e introvabile

 

Così, come per gioco, lui e io ci siamo infilati nella bella impresa del mettere in chiaro che Torino era stata Berceau du cinéma italien. Il palcoscenico è quello parigino del Centre Pompidou, l’occasione straordinaria per me di mettere in pratica esperienze di cinema sperimentale che venivano da anni non tanto lontani e di gusto New American Cinema e per Sanguineti, cinefilo raffinato, di esser presenza viva nei film e dentro la storia del cinema italiano a dispensare commenti caustici e ironici, tradotti poi in un francese altrettanto poetico da Jean Thibaudeau poeta di Tel Quel. La sera della proiezione, in un affollatissimo Pompidou, era nata prevedendo l’apoteosi gastronomica tutta chef italico-piemontesi. Non ci fu verso, Sanguineti spinse mia moglie a trascinarmi fuori e in alto sul terrazzo del museo a contemplar una Parigi tiepida e notturna.

 

Incantato dal ritrovamento dell’etichetta del vino che gli ricordava momenti straordinari ormai fuggiti via lontano, restammo non poco a ricamare di quei Passages su cui tanto aveva detto e speso Walter Benjamin: Galerie Colbert, Passage du Havre, Passage Brady e così via. E ora davvero proprio come nel “Purgatorio de l’Inferno” del 1963 dopo la scoperta, “al di là di quel purgatorio di giardini”, della Galerie Vivienne mi son rimaste “tre lunghe scatole di cartoline illustrate, tutte scritte, con i francobolli: tutte da leggere”. Quelle proprio che dai mille suoi viaggi non ho mancato mai di ricevere e rileggere di tanto in tanto.

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