Gershom Scholem (a sinistra) e Walter Benjamin (elaborazione grafica Il Foglio)

Benjamin-Scholem, i corrispondenti

Elisa Veronica Zucchi

Una feconda amicizia all’ombra degli anni 30 tedeschi: in libreria il carteggio tra il filosofo e lo studioso della Qabbaláh e della mistica ebraica

“Nel 1932, mentre ero all’estero, iniziai a rendermi conto che presto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sempre, alla città in cui ero nato”, annota Walter Benjamin nella Prefazione a Infanzia berlinese intorno al Millenovecento. E proprio l’infanzia costituisce per il filosofo in esilio un rifugio dello spirito. Gli anni in cui Benjamin scrive Infanzia berlinese sono quelli dell’avvento del nazionalsocialismo. Fra il 1933 e il 1935, per sfuggire alla censura, è costretto a utilizzare lo pseudonimo di Detlef Holz per le sue pubblicazioni in Germania. “Lo scrittore Detlef Holz ti prega per mio tramite di conservare i suoi scritti nell’archivio dei miei lavori”, scrive Benjamin all’amico e impareggiabile studioso della Qabbaláh e della mistica ebraica Gershom Scholem. Se Detlef Holz è uno pseudonimo necessario, Agesilaus Santander è il “nome segreto” di Benjamin (in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo). E’ a questa cifra nascosta, percorso teologico e sotterraneo, quantunque applicato a un marxismo eretico e per nulla ideologico, che si rivolge principalmente l’attenzione di Scholem.

 

L’inscindibilità delle ironiche riflessioni di Benjamin e delle più puntigliose, ma non meno sagaci, considerazioni dello studioso dell’ebraismo, traluce attraverso la filigrana di un francobollo. Questa illuminata epifania ci rivela, al di là delle divergenze intellettuali, una – direbbe Baudelaire – correspondance (“corrispondenza”, più che affinità, legame segreto) spirituale ed estetica. Entrambi tedeschi di origine ebraica, tutti e due di Berlino, dove, peraltro, si incontrano nel 1915 e intessono una feconda amicizia. Scholem emigra a Gerusalemme, dove ha la prima cattedra del suo insegnamento mentre Benjamin, esule e indigente, si sposta di continuo: fra le tante tappe, Ibiza, Sanremo, Svendborg (ospite di Brecht che custodisce anche la parte più rilevante della sua biblioteca), Parigi. Una lontananza, un nitore e un’oscurità avvolgono le lettere e le cartoline raccolte in Walter Benjamin-Gershom Scholem. Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940 (Adelphi, 2020 – una riedizione italiana a cura di Saverio Campanini).

 

L’epistolario – quel che di esso si è salvato dalla distruzione della Gestapo – costituisce una fucina feconda di osservazioni, nonostante la “pigrizia epistolare” di cui si accusano dispettosamente l’un l’altro. Il carteggio ci restituisce un luminoso disagio e una testimonianza consapevole – anche se il nazismo ancora non era stato compreso nella sua mostruosa viltà, pur presagita – nonché una mappa della produzione intellettuale dell’epoca. Si staglia con dismessa lucidità, sulla propaganda dell’orrore, la sobria fermezza con cui Benjamin e Scholem tengono fede a quella “saggezza della conoscenza” in cui entrambi vogliono sperare. Viene precluso l’accesso alla stampa per gli ebrei, via via destituiti anche dai ruoli accademici; il fratello di Benjamin viene preso dalle SA e quello di Scholem arrestato nella notte dell’incendio del Reichstag.

 

Lo studioso dello Zohar (il libro più importante della tradizione cabalistica) riceve da Benjamin i suoi manoscritti, diventando il custode della “camera oscura del suo archivio”. I due leggono il Kierkegaard di Adorno e La madre di Brecht. Incontrano Hannah Arendt. Accusano Ernst Bloch di plagio; Benjamin apostrofa con veemenza il biografo e amico di Kafka, Max Brod, rimproverandolo di “ostentata intimità” e “sciatteria giornalistica”. Discutono accesamente, partendo da premesse diverse, sull’opera dello scrittore praghese di origini ebraiche che assurge a simbolo dell’Haggadah (parabola narrativa ebraica) e dell’Halakhah (tradizione normativa religiosa). Ci avverte, però, Benjamin: “Le parabole di Kafka si dispiegano (…) come il bocciolo diventa fiore. Perciò il loro prodotto è affine alla poesia” (Angelus Novus). Due amicizie, in un certo senso, speculari, pur imparagonabili sul piano intellettuale, quelle di Kafka e Max Brod e di Benjamin e Scholem. Brod salva l’opera di Kafka, così Scholem archivia meticolosamente quella di Benjamin, aspettando il suo arrivo in Palestina, che non si realizzerà mai. Benjamin si suicida a Port Bou nel 1940, lasciandoci, tuttavia, a protezione, le sue suggestioni sull’Angelus Novus di Paul Klee: “Un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto (…) Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso”.

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