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Da Leopardi a Montale. Le mille lune che gravitano intorno alla poesia italiana

Roberto Copello

L’eredita’ romantica, l’invettiva, lo sguardo rovesciato

Luna, moon, lune, Mond, selène, lunà: in quante lingue i poeti hanno cantato la luna? Probabilmente, lo hanno fatto in tutte le lingue e in tutte le epoche della storia della civiltà, al punto che una certa coscienza popolare addirittura identifica luna e poesia, lunatico e poetico, astralità e astrazione. La contemplazione stessa della luna è di per sé un’operazione poetica, tale da stimolare la creatività individuale e sociale e consentire le più svariate interpretazioni: la “polisemìa” dell’astro lunare ricorda dunque la caratteristica che tanti luminari del pensiero estetico novecentesco (da Jakobson a Guardini a Barthes) hanno ritenuto esclusiva dell’opera d’arte. E infatti, prima che Galileo ci descrivesse la luna con la prosa del suo cannocchiale, ben altre lenti poetiche erano state utilizzate da chi nel nostro satellite credeva di scorgere un dragone (i cinesi), un coniglio (i giapponesi), un cane (tedeschi e indiani), addirittura un uomo decapitato (gli svedesi). Dante, come tutti i suoi contemporanei, vi intravvedeva i lineamenti di Caino. Poi arrivò la scienza moderna, che rese la luna troppo concreta per mantenersi poetica, e i poeti dovettero eccedere in astrazione. Era aperta la strada per la luna-ruffiana degli innamorati, una luna-simbolo, una luna che non esiste(va): la luna dei poeti, appunto.

 

Mille lune gravitano attorno al pianeta della poesia italiana dall’Ottocento in poi: mille meteoriti frutto dell’esplosione della grande luna post-romantica. A disintegrarla cominciano gli scapigliati come Faldella (“un verdastro di selenografia veneziana”) e Lucini (le sue Espettorazioni di un tisico alla luna furono inserite da Edoardo Sanguineti in una provocatoria hit-parade delle dieci migliori poesie di tutta la letteratura italiana). Anche i crepuscolari fanno la loro parte: Gozzano, memore di De Musset, alla sua signorina Felicita fa dire che “la Luna sopra il campanile / pareva ‘un punto sopra un I gigante’ ”. La mazzata definitiva però viene dai futuristi: se Soffici ancora si limita all’ironia dissacrante (“gli archi elettrici / fanno l’articolo della luna, casa fondata nell’anno I dell’eternità”), Marinetti ne fa l’oggetto di una sua celebre invettiva, allorché urla programmaticamente “Uccidiamo il chiaro di luna!”. E’ la luna dissacrata, una reazione eccessiva agli eccessi del romanticume d’accatto.

 

Ben altra era la vera eredità romantica, quella che aveva avuto in Leopardi il più alto interprete. Nell’opera del recanatese la luna è presenza assidua, interlocutore privilegiato, presenza casta, testimone familiare ma lontano dal dramma umano. E’ la luna “vereconda” dell’Ultimo canto di Saffo, la luna “queta” della Sera del dì di festa, la luna “graziosa” e “diletta” dell’idillio Alla luna. E’ l’algida e misteriosa divinità che induce il pastore errante dell’Asia a riflettere sul proprio destino, nel celebre Canto notturno dove la luna è detta via via silenziosa, vergine, intatta, eterna, peregrina, solinga, candida, giovinetta immortale. Ed è infine la luna che in un’atmosfera favolosa si stacca dal cielo e precipita nel prato del pastore Alceta, nello splendido e misconosciuto Frammento XXXVII: dove il senso di vuoto, di agghiacciato spossessamento, di sgomento indotto dal venir meno di quella presenza luminosa e dal persistere in cielo di “un barlume, o un’orma, anzi una nicchia”, è il sigillo del lutto del cielo, quasi una premonizione dell’esistenzialismo e dei suoi tormenti novecenteschi. Una luna esistenziale, quella leopardiana, di cui infatti resteranno ampie tracce nella successiva storia letteraria italiana. Su questa linea si colloca, per esempio, il clima favoloso dell’Assiuolo di Pascoli, il cui interrogativo incipit (“Dov’era la luna? Ché il cielo / notava in un’alba di perla, / ed ergersi il mandorlo e il melo / parevano a meglio vederla”) condurrà all’angoscioso “pianto di morte” della chiusa. Luna esistenziale è quella di Ungaretti, che in Veglia ricorda una notte passata “vicino a / un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio”. Dramma e dolori bellici saranno assunti anche da Gatto, per esempio in Alla voce perduta (“e imbianchi, luna di pietà, la guerra”).

 

Quasi totale invece l’assenza di Montale, più propenso ad ambientazioni solari (e solariane), tanto che nel suo corpus poetico l’astro lunare ricorre solo una decina di volte, per lo più di straforo. Importante tuttavia, ai fini del nostro discorso, una sua poesia minore, Fine del ‘68, scritta pochi mesi prima dell’allunaggio del Lem: Montale vi immagina di contemplare “dalla luna, o quasi, / il modesto pianeta che contiene / filosofia, teologia, politica, / pornografia, letteratura, scienze palesi o arcane. / Dentro c’è anche l’uomo, / ed io tra questi. E tutto è molto strano”. La citazione interessa soprattutto in quanto vale a introdurre il discorso sull’ottica rovesciata, su quello “sguardo dal di fuori” che tanto intimoriva Heidegger, come metafora dello sradicamento e dello strapotere tecnologico. Ironicamente, Allen Ginsberg oltre oceano scriveva che “solo lo scienziato è vero poeta egli ci regala la luna ci promette le stelle ci farà un nuovo universo se necessario”. Per questo oggi appare tanto vacuo lo scientismo con cui Quasimodo – in quell’eccesso ideologico che era Alla nuova luna, pubblicato sull’Unità per il lancio del primo satellite artificiale, il sovietico Sputnik – aveva inneggiato all’“intelligenza laica” di chi “mise altri luminari uguali / a quelli che giravano / e dalla creazione del mondo. Amen”.

 

La luna tecnologica in verità minaccia la poesia solo quando viene assunta come valore “in sé”: Armstrong e Aldrin, calpestandola, non hanno certo fatto alla luna dei poeti più male di chi ha rinunciato a concepire la poesia come avventura dell’interiorità e della forma, a pro invece del luogo comune sentimentale o ideologico. Poco prima dello sproloquio di Quasimodo, Sergio Solmi nel 1956 con profetica genialità aveva dato la migliore interpretazione poetica di questo sguardo rovesciato, di questa “terra vista dalla luna”, a dirla con Pasolini. In Levania, riprendendo un fantastico viaggio lunare immaginato da Keplero, Solmi sposa tradizione e modernità, ardore scientifico e profondità poetica: da un lato riallacciandosi al prometeico fil rouge che unisce Luciano di Samosata, Ariosto, Raspe, Verne; dall’altro facendo sua la lezione umana e artistica di Leopardi, Montale e Ungaretti. Pagina eccelsa, merita una citazione un po’ più ampia: “E l’ansia / mi sommuoveva il cuore di raggiungerla / – ippogrifo, proiettile, astronave – / d’attingere al silenzio del suo lume. / Era il confine, il mondo / di ferro e di roccia, il minerale cieco, / il punto fermo apposto alla insensata / fantasia delle forme. Era lo zero / che ogni calcolo spiega; era il concreto, / bianco, forato, calcinato fondo / dell’essere. / E sovente dai supremi / bastioni di Levania il verdeggiante / pianeta ho contemplato, l’ombra vaga / di oceani e di foreste, della vita / impetuosa e fuggevole le polle / iridescenti – risalendo l’orlo / dei suoi convulsi crateri, vagando / lungo la sponda dei suoi mari morti”.

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