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Contro Milano

Michele Masneri

Milano è una città stato, un emirato felice, ma oggi è anche una bolla all’interno della quale sta lievitando un male oscuro: il bluff di una nuova superiorità antropologica. Politica, stories e attivismo morale della procura. Un giusto processo, invidia a parte

Prima c’è stato il lamento di Provenzano. Peppe Provenzano, neo ministro per il Sud (Pd), ha detto a un convegno che insomma, Milano è un problema. Ha detto, Provenzano, a un convegno sul tema “Il Meridione visto da Nord”, periglioso fin dal titolo, che “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. “Tutti decantiamo Milano”, disse Provenzano, “ma non è la prima volta nella storia d’Italia che è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. E poi ancora: “Intorno ad essa si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia. E’ la sfida che dovremo provare a cogliere”. Insomma è uno sfogo in piena regola, un lamento, contro Milano e il suo mito arrembante di questi anni post Expo. Milano la ricca, la internazionale, la smart city, Milano perfino col bel tempo. E che doveva fare, Peppe Provenzano, da Caltanissetta, ministro per il Sud che ormai non ha più neanche il portafoglio del sole: il suo è davvero un lamento, è il Provenzano’s complaint, verso questa città che prende ma non dà, cioè l’accusa che si fa sempre agli amanti che non corrispondono, o agli amici che si vorrebbero un po’ più di amici. Che doveva fare, Peppe Provenzano, il ministro per il Sud, trentasettenne che gli tocca stare a Roma, con due figli piccoli, e magari vorrebbe tanto stare al Bosco Verticale.

 

Le risposte, da Milano, sono arrivate subito: il sindaco Sala ha spiegato che “Milano restituisce nella misura in cui ci viene chiesto e nella misura in cui veniamo messi in condizione di farlo. Non abbiamo nessun istinto egoistico”. Prendi su e porta a casa. E poi però timide ammissioni: “A oggi è vero che Milano sta un po’ fagocitando tutta la crescita che il nostro paese potrebbe meritare – ha detto Sala –. Ma, se mi chiedete da sindaco di Milano se è giusto, dico di no. Mettendosi nei panni delle imprese straniere, qui si sentono rassicurate perché sanno che il sistema funziona”. Il fatto è che un problema c’è, il problema è che Milano funziona troppo, e Beppe Sala, anzi Beppesala, come il suo profilo Instagram, è parte del problema.

 

Normalmente i sindaci che vengono mitologizzati o periscono in servizio per mano di burocrazia o squilibrati (Petroselli a Roma, Harvey Milk consigliere comunale a San Francisco), o compiono azioni poi epocali – Rudy Giuliani con la teoria del vetro rotto; altrimenti è difficile che si crei la leggenda in vita. Giuseppe Sala, o come dicevan tutti Beppe, o Beppesala che è il nickname, il nome d’arte, e soprattutto il suo account Instagram, c’è riuscito. Di Milano lui è più che sindaco, è testimonial, grazie a una comunicazione moderna e postmoderna online e offline. Su Instagram, grazie a un guardaroba e a una logistica invidiabile, passa da completini sciistici a felpe con cappello targate Netflix quando c’è da celebrare la vittoria di Milano per le Olimpiadi invernali, alla felpa che richiama Tokyo, uno dei personaggi della serie “Casa di carta”, che va in onda su Netflix e di cui il sindaco è seguace, perché un sindaco di Milano non può non amare le serie. Altri outfit-signifiers di Beppesala sono le calze arcobaleno a significar vicinanza – sacrosanta – col popolo Lgbt; il marsupio, utilizzato in una recente apparizione nella trasmissione di Daria Bignardi in cui la Bignardi lo accusava in sostanza d’esser radical chic e dunque sconnesso dal paese reale (è di nuovo il lamento di Provenzano) e lo camuffava secondo un’idea codificata di tamarraggine metropolitana (marsupio, appunto, e occhiali da sole). Ancora: con maglietta “pensavo fosse amore invece era Milano”; a torso nudo ma *ironico*, con birra marca Malnatt, che va ai carcerati; con Raffaella Carrà; con un libro di Philip Roth, con Papa Francesco, con mug “Tiremm innanz”. Con Jovanotti. Con Ghali. Col milanese imbruttito.

 

In generale l’Instagram – un bell’Instagram – di Beppesala è astuto e aspirazionale, mostra la vita di un signore felice, in belle case, una bellissima fidanzata (Chiara Bazoli), libri interessanti, vasche da bagno d’epoca. In generale pare l’Instagram di un privato cittadino, più che di un amministratore, e in questo c’è il successo e la contemporaneità. La privatizzazione del pubblico, con gli outfit, con le foto in vacanza, Beppesala fa cose, è insomma – apriti cielo – la stessa di un Matteo Salvini, ovviamente depurata dalla volgarità, spurgata dai mojitini, ma sempre di corpi, talvolta al sole si tratta. Ed è molto diversa da quella di altri sindaci: distantissima dall’Instagram di Virginia Raggi, per esempio, ansiogeno e basico come direbbero a Milano, ma più da sindaco, e dunque forse “antico”, fatto di cartelli “Nuovi bus a metano”; “Centro off limits agli autobus turistici”, scritte cubitali gialle di impegni poi quasi mai mantenuti, “Rinasce deposito Atac San Paolo”, “Roma avanti nel turismo di lusso”, compattatori di bottiglie di plastica, in una valanga di foto anche cromaticamente incoerenti (ma la Raggi ha 250 mila follower, il doppio di Beppesala).

 

Anche offline la comunicazione di Beppesala è efficiente, giovane, top. Non sbaglia un colpo: incontra e capta tutte le manifestazioni di figaggine varia – appena Mahmood vince Sanremo, lui se lo accaparra subito: “Unico cantautore che si ricordi a essere stato intervistato da un sindaco di Milano” strilla subito l’ufficio stampa collettivo della città-stato, una delle forze della Milano di oggi, un centro di positività che dirama e irraggia il resto del paese e il mondo intero di good news milanesi.

Beppesala ha incontrato in primavera il cantante in un evento già leggendario nella costruzione del mito della nuova Milano: “Per una volta non sarò io l’intervistato – ha detto – ma chiederò a lui di parlarmi di come vive Milano e di cosa può fare la nostra città per i giovani”. Beppesala intervista anche Marracash, altro rapper, altro segmento della Milano inclusiva e partecipata. Poi Ghali, poi Jovanotti. Beppesala partecipa a tutti i gay pride, a tutte le manifestazioni, per la pace, per la Segre, le sagre, e i milanesi si fanno il selfie con Beppesala. Top.

 

Da Roma ha traslocato Sky, alla periferia coreana di Rogoredo, e poi Netflix, che non ha una sede ma è come se l’avesse: oltre a vestire il sindaco veste
la fermata della metro di porta Venezia, col suo arcobaleno,
che doveva essere transitorio invece rimarrà (e a Roma, invece,
rimane solo ’a Rai, e ’a Raggi)

   

Ma il Beppesala beach party definitivo è stato quando ha distribuito borracce d’acqua naturalmente “del sindaco” ai ragazzi delle elementari e medie. A metà settembre si è dotato di contenitori di alluminio e insieme al cantante (quanti cantanti) Marco Mengoni si è fatto ritrarre insieme a bambini festanti in pose un po’ nordcoreane. Caption: “Con il mio amico @mengonimarcoofficial a consegnare borracce #amomilano #plasticfree” (e pazienza se qualche professore lamenta che le borracce sono un po’ pericolose e i bambini se le danno in testa, che diventano ricettacoli di germi), l’ufficio stampa collettivo copre tutto il rumore di fondo. A Milano si sta bene. A Milano sono tutti felici.

 

Qualche volta Beppesala, perché è umano, perde la brocca anche lui, a causa del male oscuro milanese, la übris: così c’è stato il già famoso schiaffo di Avellino, che a Milano si tende a dimenticare, ma tocca qui ricordare, invece, un anno fa, quando Beppesala a un convegno “in” Bicocca, rispondeva all’allora in voga tematica delle chiusure domenicali dei negozi, idea avanzata dall’allora ministro dello Sviluppo economico Di Maio; e Beppesala rispondeva, ovviamente, giustamente, che trattavasi di “follia”. E poi perché i negozi sì, e non i giornali, ad esempio? Ma non sazio del buonsenso, si scatenava in un pensiero un poco razzista: “Se la vogliono fare in provincia di Avellino la facciano, questa chiusura. Ma a Milano è contro il senso comune. Pensassero alle grandi questioni politiche, non a rompere le palle a noi che abbiamo un modello che funziona e 9 milioni di turisti”.

  

La sparata di Beppesala stupiva per quel riferimento ad Avellino, paese di nascita di Di Maio, che però trova la costituency soprattutto a Pomigliano d’Arco, e il riferimento alla rottura di palle, e ai turisti pure (il turismo a Milano continua a crescere, ha battuto Roma, è cresciuto del 17 per cento anche a settembre). “Mi rende particolarmente orgoglioso”, dice Beppesala.

 

Ma quello su Avellino era un tipico sbrocco da milanese, toccato oltretutto nel sacro graal del lavurà. “Lavoro guadagno pago pretendo”, era Milano contro il sud tutto intero, a partire da Roma, Franca Valeri contro Alberto Sordi nel “Vedovo”. Avellino era una metonimia, la parte per il tutto (il più illustre avellinese della storia d’Italia è Ciriaco De Mita, oggi 91 anni, già definito da Gianni Agnelli “un intellettuale della Magna Grecia”). Il simmetrico di Beppesala.

 

  

  

De Mita però è un uomo del secolo scorso, Beppesala è l’uomo dei nostri tempi. Beppesala si ricandiderà, Beppesala guiderà il Pd, Beppesala può fare ciò che vuole: forse però non in Italia, perché l’Italia – Provenzano was right – è un’altra cosa. Milano è ormai una città stato, un emirato felice, una bolla. E’ il secolo delle città, e Milano è la città più città di tutte. Lo teorizza lo stesso Beppesala, nel suo libro, “Milano e il secolo delle città” (La nave di Teseo). Lo ha ammesso anche Antonio Calabrò, giornalista e vicepresidente di Assolombarda; nel 2025, secondo una ricerca McKinsey, in 600 città globali il 66 per cento della popolazione del mondo produrrà due terzi del pil mondiale. E se la competizione internazionale già adesso non è più tra nazioni, ma tra grandi aree metropolitane ricche di connessioni, tra “sistemi territoriali integrati”, la “grande Milano”, con la rete di relazioni e di flussi di persone, idee e affari “nel raggio di cento chilometri”, ha tutte le caratteristiche per giocare un ruolo di primo piano. Anche “in termini di smart city, di economia circolare e civile, di quel green new deal caro anche alla Commissione Ue”.

 

E però il Guardian, forse eterodiretto da Peppe Provenzano: “Questo posto è cambiato enormemente negli ultimi anni. E’ molto più internazionale”, fa dire a un Pierluigi Dialuce, giovane economista émigré romano a Milano, intervistato dal giornale inglese. “Ci sono stati così tanti investimenti e c’è così tanta cultura. Roba che non trovi in altre parti d’Italia. Il milanese non esiste più. Milano è fatta da professionisti che sono venuti a vivere qui perché qui ci sono opportunità che non ci sono lì da dove vengono. Questi sono il meglio che l’Italia offre. E’ una specie di selezione naturale, che sta creando una comunità che è molto più europea come mentalità. Milano non è l’Italia”, dice Dialuce, commentando un sondaggio Eumetra dell’anno scorso, secondo cui l’85 per cento dei milanesi non sceglierebbe un’altra città in cui vivere. Questa quota aumenta fino al 90 per cento tra i più giovani, in particolare tra i 18-24enni (95 per cento) e tra i 25-34enni (91 per cento). Città stato, città bolla, con gioventù coreana, che sfila per il suo sindaco.

 

Il titolo del pezzo del Guardian è: “Come le megacittà d’Europa hanno rubato la ricchezza del continente”. La tesi è affascinante ed è totally Provenzano: sempre più persone si concentrano in luoghi urbani iperqualificati, che a loro volta producono richiesta per un certo tipo di beni e servizi ad alto valore aggiunto. Diventando sempre più attrattive, risucchiano quello che c’è intorno. E’ anche un po’ la tesi di Enrico Moretti, il nostro economista di Stanford, che teorizza i cluster: luoghi come le abbazie benedettine nel medioevo, con tutti i talenti concentrati (e intorno il deserto).

  

Milano ha l’horror vacui e si prende tutto: è appena finita Bookcity, la settimana del libro, ma poi c’è piano city, e calcio city, e la settimana del mobile e della moda, e la photo week e la game week e digital week e la art week. Non tutte sullo stesso livello eccelso, ma comunque nulla sfugge all’idrovora milanese, il salone del libro tenta di resistere, le Olimpiadi non ce l’hanno fatta. Milano è un Dyson. Aspira tutto quello che c’è intorno: anche a livello giudiziario: la procura guidata da Francesco Greco ha appena aperto un’inchiesta su Taranto (più lontana di Avellino), non perché vi sia ipotesi di reato, ha precisato, ma perché c’è un interesse pubblico a difendere l’occupazione e l’economia. Insomma, Milano investita di competenza anche morale-giuridica sul resto d’Italia.

 

Nella città-stato a difendere occupazione ed economia ci pensano i milanesi, invece: albergatori e tassisti, baristi e Airbnb, finanzieri e architetti. I prezzi stanno diventando una cosa seria. Arrivare, nella città-stato, a volte è difficile (i treni veloci da Roma costano anche 90 euro a tariffa piena). Scapparne a volte impossibile, quelli del weekend vanno prenotati con anticipo. Rimanervi, pestilenziale. In questi giorni di Bookcity – ma le settimane in cui non c’è qualcosa sono ormai pochissime – impossibile trovare un Airbnb sotto i 120 euro. Per chi ha fatto il grande passo, e decide di stabilirvisi, millecinque è il prezzo per l’oggetto dei desideri, il “bilo”. Le agenzie immobiliari lo sanno e sfornano letteratura e branding e acronimi, “zona Fondazione Prada”, “Nolo”, Naba, i racconti di chi cerca casa in questi anni di trionfo milanese sono angoscianti, devi andare coi soldi in mano, altro che coeur in man.

 

In generale l’Instagram di Beppesala è astuto e aspirazionale,
mostra la vita di un signore felice, in belle case, una bellissima fidanzata (Chiara Bazoli), libri interessanti. In generale pare l’Instagram
di un privato cittadino, più che di un amministratore,
e in questo c’è il successo e la contemporaneità

 

Micidiali periferie con microclimi lagunari sono vendute a 4/5 mila al metro, famigerati scali ferroviari vengono sottoposti a biechi ripristini da parte di primarie archistar mondiali ad attirare incauti forestieri in rigenerazioni urbane velocissime. Chi ha casa se la affitta su Airbnb nelle innumerevoli week e va a stare da amici. C’è un problema di spazio, fisico e metafisico, come ti raccontano gli imprenditori che tentano di aprire a Milano. A parte gli affitti terribili, bisogna ormai strapagare le maestranze; si studiano soluzioni, grazie anche o per colpa delle Frecce e della Tav che ha compiuto in questi anni il miracolo di Milano, agendo come vaso comunicante ha portato tutti dove si sta meglio.

 

Solo che ora non c’è più posto: la Lombardia, prima dell’Italia, sta facendo i conti con questa espansione quasi-tumorale; le città intorno sono polverizzate e risucchiate dal Dyson di Beppesala. Le più grosse stanno in campana. In tanti fanno il loro commuting da Brescia e Torino, belle città che non sono Milano (ma le case costano un terzo) e che lottano per non diventare sue periferie. La prima si pone come ben amministrato snodo verso l’oriente e verso il manifatturiero, collegata con l’unica autostrada business class d’Italia, la A35 o Brebemi. Gli imprenditori dell’acciaio bresciani vi sfrecciano verso Milano che considerano come loro piazza terziaria, ci sono gli avvocati, c’è l’aeroporto. Se non hai la macchina c’è il Frecciarossa, 36 minuti, 26 euro in classe basica. Chi non li ha prende il nigger train o il giargia, termini poco carini per indicare i regionali (“Ho preso il nigger delle 22.20”. “Sei matto”, è un dialogo frequente). Poi Torino, miseria e nobiltà, banche (grattacielo Intesa), OGR, derubata delle sue Olimpiadi, orfana della Fiat, un po’ Detroit. Tanti ci si trasferiscono per non morire d’affitto. Sessanta minuti di freccia, 36 euro.

 

Il troppopieno milanese preoccupa non solo Provenzano ma anche i milanesi intelligenti. Stefano Boeri, archistar identitaria, figlio della Cini, autore del Bosco verticale, patron della Triennale, studia con interesse che sta succedendo nel resto d’Italia; ha antenne nelle colonie. Ha un suo giovane seguace come assessore alla Cultura a Firenze, e fa accordi perfino col Maxxi a Roma. “Una città così interessante”, sibila qualcuno, sinceramente interessato, alla capitale, tipo Elon Musk che vuole andare a colonizzare Marte. Magari c’è ossigeno.

 

Nell’èra delle serie tv e di Instagram, nell’èra di Milano, Roma è stata tagliata fuori anche come fabbrica dei sogni; certo rimane il Papa, ma tanto Milano ha il suo cardinale. E da Roma ha traslocato Sky, alla periferia coreana di Rogoredo, e poi Netflix, che non ha una sede ma è come se l’avesse: oltre a vestire il sindaco veste la fermata della metro di porta Venezia, col suo arcobaleno, che doveva essere transitorio invece rimarrà (e a Roma, invece, rimane solo ‘a Rai, e ‘a Raggi, con le metropolitane stecchite). Netflix, l’emittente californiana simbolo dei tempi, delle serie che non sono più i telefilm, non c’è ma è come se ci fosse; la riprova è che la magistratura (di Milano) ha aperto un’inchiesta, per qualche presunto impiccio, e se lo dice la magistratura esisti.

 

Nei giorni scorsi una polemichetta istruttiva, su Twitter, tra giornalisti milanesi giovani, e un interessante cortocircuito sulla nuova Milano: sull’uso di Myss Keta come testimonial per l’ennesima serie, di Netflix. Il fatto è che Netflix per lanciare la seconda stagione della serie “The End of the F***ing World”, fa un promo con dentro Myss Keta. Uno diceva che il resto del paese chissà se avrebbe capito. Forse era una roba veramente troppo local. “Ma quello che va bene a Milano va bene per l’Italia”, rispondeva l’altro. Per chi sta a Pescara, o a Vasto, e comunque fuori dalla città stato, Myss Keta è un interessante “progetto” (tutto a Milano è un progetto) di performer-cantante con testi sociologici-urticanti e nata nel 2013 con singoli abbastanza geniali e molto underground che cercavano di centrare la Milano di quegli anni: una donnona postmoderna un po’ swag, che canta, a volto coperto, canzoni come “Milano sushi e coca” (“Dammi il tuo nigiri / mi piace come tiri”; “mi faccio un tempura / che notte da paura / bamba soldi e sesso / la strada di successo”).

 

 

Uno dei suoi singoli più celebri, “Le ragazze di Porta Venezia”, lanciato proprio nei giorni dell’Expo, mostrava questa gang di ragazze a spasso appunto nel quartiere milanese tra rapine, droga, e sfottò-omaggio a divinità locali – le ragazze si chiamavano Miuccia Panda, Donatella, la Prada, la Cha-Cha e la Iban. Adesso, tre anni dopo, è uscita una nuova versione di queste ragazze di Porta Venezia, depurata dai riferimenti alla coca e ai ribellismi, ripulita e sanificata. Nel quartiere brandizzato Netflix, Myss Keta e le sue ragazze sono diventate “Un inno a vivere senza vergogna, senza farsi influenzare da nessuno. Un manifesto per tutte le persone che hanno il coraggio di essere se stesse, indipendentemente dai giudizi e dai pregiudizi degli altri”. La moderna femminilità è un altro aspetto che fiorisce nella città stato e che probabilmente non sarebbe possibile fuori, cioè in Italia. Si narra anche di feste a tema in cui giovani intellettuali si riuniscono per abbattere a mazzate la pignatta del patriarcato. Nel frattempo Myss Keta è ormai completamente istituzionalizzata, messa a reddito. Beppesalizzata. Da fenomeno underground che denunciava la Milano arrembante della coca e del nuovo rampantismo, è ormai inglobata nel sistema (e Beppesala compare in un video con lei, in cui il sindaco fa una specie di mago).

 

  

Ciò che va bene a Milano va bene per l’Italia. La città stato è iperconnessa, ma sconnessa dal resto d’Italia. La città stato è arrogante. Genera isteria nel resto d’Italia. Il Provenzano’s complaint è sgangherato ma comprensibile: il Paese, è chiaro, è andato. Ilva, Mose, Alitalia, Roma Capitale: dove ti giri c’è lo sfacelo. In queste condizioni, Milano potrebbe essere più carina, invece bullizza tutti gli altri: l’aeroporto di Linate è stato ristrutturato e riaperto in tre mesi meno un giorno, in anticipo sui tempi previsti; è stato dotato pure di “riconoscimento facciale” (addio metal detector, addio primato morale di Fiumicino, l’unica cosa che funziona a Roma). Musei e ospedali e biblioteche verticali e orizzontali e vegetali aprono ogni giorno. Nasce lo Human Technopole, centro di ricerca farmaceutica sul luogo sacro in cui sorse il rito primigenio fondante della nuova Milano, l’Expo 2015. Ora è diventato Mind, il Milano Innovation District: “Questa è la nuova casa per le scienze della vita” ha detto il presidente di Human Technopole, Marco Simoni. E il premier Conte, inaugurandolo: “Milano è all’avanguardia”. Ma ha poi assicurato che quel luogo sarà “sempre aperto” al “paese”. Grazie, gentilissimi.

 

Dev’essere questo bullismo, perché di bullismo si tratta, ad aver scatenato Provenzano. C’è da capirlo. Del resto i milanesi simpatici non son stati mai. Sono come i tedeschi in Europa, tendono a strafare. Col ritorno della grande Milano è nata anche una nuova genia, il bauscia 2.0, figura che si credeva scomparsa con la scomparsa di una certa cinematografia, il “cumenda”, che può essere Guido Nicheli in “Vacanze di Natale”, Massimo Boldi in “Yuppies”, o il commendator Fenoglio nel “Vedovo”, o il Bibi nel “Sorpasso”), insomma il milanese non simpatico che parla solo di soldi vantandosi dei suoi affari. In più, una certa mancanza di ironia, la tendenza a prendersi terribilmente sul serio, una specie di arroganza che tutti constatiamo in chi si trasferisce a Milano (Milano fa qualcosa alle persone, lo sappiamo tutti). Abituato all’assenza di sfottò, il milanese è agitato, performante, mai domo. Il nuovo bauscia naturalmente non si vanta delle conquiste femminili né avrebbe la Porsche o la Mercedes, è ecologico, femminista, con la sua borraccetta e gli airpods perenni che gli pendono dagli orecchi come gioielli di un faraone. Controlla le luci e le caption del suo Instagram. Ti parla del suo progetto, della sua idea, della sua startup. E’ elegante, vezzoso, pluriaccessoriato, forse perché sa che deve mantenere in vita gli immani commerci cittadini che reggono la città stato; tutto è ammesso a Milano tranne la frugalità.

 

“Il milanese non esiste più. Milano è fatta da professionisti
che sono venuti a vivere qui perché qui ci sono opportunità
che non ci sono lì da dove vengono. E’ una specie di selezione naturale,
che sta creando una comunità che è molto più europea come mentalità. Milano non è l’Italia” (Pierluigi Dialuce) 

  

E’ e rimane infatti una città di commerci, più che di industria, di qui un’eleganza e una mentalità da vetrinisti – il vetrinista, nobile professione; Giorgio Armani faceva le vetrine alla Rinascente, alle vetrine di Fiorucci in piazza Duomo ci si andava in pellegrinaggio; e uno dei miti fondativi di Milano, il commendator Bocconi, aveva il mall con le meglio vetrine di Milano e dunque d’Italia. Il gusto vetrinistico ha a che fare con le miniature e col presepe (presepi di pane, biscotti, tortellini, cravatte, cioccolatini; le disfide tra pasticcerie, le uova di pasqua e i fiocchetti. Un genere in cui Milano è maestra. Di qui lo strano e pervasivo feeling tra Milano e Napoli; Rizzoli che si trasferisce a Ischia; Berlusconi e Apicella, il culto dei milanesi per la napoletanità). L’estetica milanese non è dunque né da interno né da esterno, è un trionfo di usci, giardini, show room, insomma né dentro né fuori. In vetrina. E del resto il rito centrale della milanesità, il salone del Mobile, è trionfo appunto della vetrina, sia in senso metaforico, “vetrina dell’industria del settore”, per la fiera, sia proprio vetrina di negozio, per tutti i prosecchini e gli eventini cui le folle accorrono nella girandola del fuorisalone. Il culto delle merci si riverbera anche sul trionfo del calembour commerciante, nonsolopane, paninogiusto, pastamadre, il fornaio, el forner (quante panetterie, in una città di persone magrissime e fit che si sparerebbero pur di non ingerire carboidrati. Il trionfo del lievito non si spiega, eppure è ossessione cittadina almeno dal Seicento manzoniano, e ha incrociato in pieno la moda americana del baking, così è tutto un trafficare di paste madri e di semi rari e farri pregiati); e poi l’orgoglio della ferramenta, e l’uniforme per domestici, in un turbinio di cambi di insegna – la modernità di Milano sta anche nel cambiare velocissimo d’esercizi commerciali, quello che andava bene sei mesi fa è già completamente out. Tenersi informatissimi. Chi si ferma è perduto.

  

Forse questa attitudine a cambiare, insieme a ciò che deve cambiare per sopravvivere, la moda, portano quel gusto di prendere serissimamente tutte le manie e i trend del momento. Fare sempre tutti insieme la stessa cosa, tutti a vedere la nuova galleria di Massimo De Carlo lo stesso giorno, tutti al Piccolo a vedere lo stesso spettacolo, tutti a villa Necchi Campiglio, poi Louis CK e via a mangiare il poke o “in” fondazione Prada. Chi è nato in provincia riconosce quella sensazione di claustrofobia, insieme al culto dei consumi: Milano ha tutti i ritrovati di una moderna metropoli – trasporti efficienti, raccolta della spazzatura, attrazioni culturali, diversità, avocado toast. Però, una strana sensazione. “Si credono Copenhagen”, ha detto una volta un mio amico, “ma sono a Brescia”. Gli aspetti provinciali sono tutti lì: in più, prendere tutto assolutamente sul serio, che è la loro forza: la città stato, startup city con il suo ufficio stampa integrato tipo Israele. “Ho saputo che sei in città”, ti chiama appunto un ufficio stampa. Forse hanno già installato sistemi di riconoscimento facciale in Fondazione Prada. Quando apre un museo o una mostra sono tutti lì. Vai alla cena e trovi tutti. L’assimilazione avviene per base professionale, il mio progetto, la mia idea, il mio lavoro, e dopo un po’ è contagiosa (e di nuovo la claustrofobia: scordati di scomparire e d’essere lasciato in pace: quello succede nelle capitali). La Nuova Credulità Milanese prevede poi che anche a mostre modeste e a eventi riprovevoli, intellettuali normalmente ferocissimi non alzino il ciglio, terrorizzati forse dalle ritorsioni tribali o forse perché “non si fa”. Il culto di Beppesala, come tutti i culti milanesi, non ammette dubbi ed eresie; chi ne parla male viene molto vituperato (parlare male, in generale, è una cosa pochissimo milanese, considerata una perdita di tempo e dunque di denaro). 

 

Chi non è milanese si adegua. C’è un patto esplicito. Consumi sofisticati e sospensione dell’incredulità. Un mio amico che abita a Milano, storicamente disinteressato all’estetica e ai social, quando lo metto alle strette perché invece da quando sta nella città stato passa ore a cercare la sua caption migliore di Instagram, o è in crisi perché non riesce a trovare delle lenzuola color tortora che si abbinino al pavimento, mi prega di non prenderlo in giro. Già è dura così, dice. Anche i romani, un tempo baldanzosi oppositori della milanesità, son mimetizzati e sono stati assimilati, non c’è più l’ombra dello sdegno di un tempo – “la cosa migliore di Milano è il treno per Roma”. Alcuni sono addirittura inseriti nei gangli della nuova Milano: soprattutto femmine come Lorenza Baroncelli, boss della Triennale; Irene Graziosi, autrice e agitatrice culturale e instagrammatica che presidia sui media della città-stato il prezioso segmento delle giovani donne. Spiega la gioventù milanese e dunque italiana insieme alla instagrammer baby Sofia Viscardi (sono celebrità a Milano prese molto sul serio, fuori chissà). Graziosi assomiglia molto peraltro a Pilar Fogliati, la ragazza romana che imita i vari accenti.

 

Abituato all’assenza di sfottò, il milanese è agitato, performante, mai domo. Il nuovo bauscia è ecologico, femminista, con la sua borraccetta
e gli airpods perenni che gli pendono dagli orecchi come gioielli
di un faraone. Controlla le luci e le caption del suo Instagram.
Ti parla del suo progetto, della sua idea, della sua startup

    

E poi il cibo, con Felice a Testaccio che ha aperto a Milano e presidia il food insieme al pizzettaro filologico Bonci che si inserisce nella temperie panettiera (ma poi, a contrario, ecco il milanese anzi pavese Max Pezzali a celebrare Roma, ormai simbolo dell’alterità deindustrializzata; nel suo nuovo brano “In questa città” uno sgangherato canto d’amore per Roma tra cinghiali, code ai taxi, e “In questa città c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo”. Insomma Roma come alterità possibile: vado a vivere a Roma è il nuovo vado a vivere in campagna.

 

E intanto Milano Provincia Capitale: il flusso di notizie in uscita è da Ventennio. Solo good news. Un turbinio di buone pratiche, record, dati positivi, studi entusiasmanti: ogni giorno apre un’università, un Emiro tira su un grattacielo. “Milano, ecco la biblioteca degli alberi: il nuovo mega parco di Milano, titola Milano Today: “Nessun cancello, ma solo verde, alberi, percorsi didattici e sentieri. Ha svelato finalmente il suo volto, sabato mattina, la “Biblioteca degli alberi, il nuovo mega parco di Milano sorto tra piazza Gae Aulenti, via Melchiorre Gioia e il quartiere Isola”. Il mega parco sono novantamila metri quadrati, terza area verde più grande di Milano (che non è proprio un vanto, diciamo). Però il mega parco, ai piedi del Bosco verticale a Porta nuova, rappresenta anche esteticamente la bolla milanese: un’area molto celebrata ma che ricorda paesaggi coreani o rumeni, anche con microclima micidiale, umidità gelida la sera, con grossi corvi che planano tra quei grattacieli da male di vivere e le residue cascine tipo Renato Pozzetto in “Il ragazzo di campagna”.

 

Valli a verificare, poi, questi novantamila metri quadri. Vai a verificare che sia tutto vero, reale, tutto ciò che Milano si vanta di essere oggi; i manager che incontri agli aperitivi in terrazza e poi vivono nelle stanze a Lambrate con tre coinquilini. Ma già a dire così passi per traditore della Patria. Il patto è talmente forte e pervasivo che ho un po’ paura a scrivere queste cose. La prossima volta, magari all’uscita dalla Centrale quando sfioro la mia carta di credito contact al tornello qualcuno mi rimanderà indietro o degli squadroni dell’Atm mi condurranno in una località segreta e poi mi smembreranno tipo consolato saudita.

Ormai il percepito è reale, cosa conta se questa biblioteca vegetale sarà grande quanto un parchetto. Lo spettacolo deve andare avanti. I giochi d’acqua nella darsena bellissimi. In mezzo alla sospensione dell’incredulità ogni tanto però qualche crepa: durante quell’Halloween milanese in cui tutto è concesso che è il salone del Mobile, è come se l’ombra, l’inconscio cittadino venisse fuori tutto: nei tassì per esempio.

  

E’ chiaro che i trasporti sono un altro tormentone della Milano Città Stato, città green e inclusiva, città dove abbandonare le auto – tra Area C e poi B e i sensori sparsi ovunque; l’orgoglio trasportistico prevede biglietto a due euro, la Lilla, Linate record, la metropolitana che si apre con la carta di credito, il rinnovato culto del tram tirato a lucido. Però, anche qui, la nemesi: per essere una capitale internazionale ed europea Milano dovrebbe avere Uber, e già qui la stranezza: ma poi i tassisti milanesi sembrano aver introiettato un’italianità riottosa e ‘nu poco levantina, napoletana, un’aggressività, che li porta a essere (apriti cielo) peggiori dei loro colleghi romani. Perché a Milano, dove tutti sono felici e dove i diamanti crescono sotto la Fondazione Prada, ti aspetteresti caramelle al miele e borracce d’acqua del sindaco a bordo. Invece il tassista milanese è leghista, incarognito, e partecipare al grande sabba milanese non lo placa comunque. Arriva con dieci euro di tassametro, e alla tua vaga protesta non avrà l’accidia del romano, bensì la protervia lombarda. “Ah non le va bene? Ne prenda pure un altro”, ti dice, sapendo che dopo averlo aspettato all’ombra di qualche Isozaki o Zaha Hadid inquietante nell’ombra umida serale, per accompagnarti in qualche tragica taverna o Airbnb coi prezzi raddoppiati causa salone, tu cederai al ricatto, e lui, vestito meglio di certo e con una macchina più nuova del collega romano, ti turlupinerà peggio di quello. Pur di non rimanere lì tu cedi e odi Milano e odi anche te stesso perchè pensi male di Milano (è la sera, la sera, che vien fuori l’angoscia di Milano, col troppo cemento, con le umidità, i grattacieli – ma chi ci abiterà mai in tutti quei grattacieli? La faccia che ti devi lavare causa smog, i ristoranti affollati con le vetrine appannate (ristoranti, tanti, di ogni tipo, naturalmente il pesce più fresco d’Italia. Essere poveri a Milano dev’essere una cosa tremenda).

 

Il tassista milanese sembra aver raccolto su di sé l’ombra, l’inconscio milanese; non può andar tutto bene; ecco allora che il tassì si carica degli spiriti oscuri. Ma anche la stazione centrale è un altro buco nero della nuova Milano: la distesa di africani baldanzosi si offre al passante e lo avvolge come ala di folla; la pericolosità dello scalo è superiore a quella romana: sono già celebri gli stormi di rapinatori zingari che si danno appuntamento per il Salone del mobile, a gruppi di trenta, anche loro attirati da quella kermesse. E poi le statistiche, di dieci giorni fa; per cui Milano è la città italiana con più reati denunciati (7.017 denunce ogni 100 mila abitanti, davanti a Rimini e poi Firenze, Roma non pervenuta). Ma si dirà che i reati si compiono dove i soldi stanno; o che i milanesi son grandi denunciatori. E dunque sulle pagine locali: vasi di fiori che cadono, gattini persi e subito ritrovati, Mahmood in lizza per l’Ambrogino d’oro. Tecnopoli che aprono. Emiri che arrivano. Tutto è depotenziato e soft: solo soft news a Milano. Certo c’è il Corriere, ci sono altri quotidiani e magazine, ma la città stato è fatta di giovani, e dunque è la città stato del giornalismo che non è carta e che è passato a Instagram. La civiltà delle immagini in movimento. Freeda. Le influencer academy. Powered by. “Pensiamo a una collaborazione”. “Mi occupo di contenuti”. Rubriche molto seguite che si chiamano “Appuntini”. Milano fabbrica dei sogni, dunque di Instagram con gli instagrammatori tutti che vengono dalla provincia, le Ferragni, e giù a scendere i Paolo Stella, l’Estetista cinica; i dj-stilisti-influencer come Marcelo Burlon (che ha chiamato il suo marchio “county of Milan”, come contea ma anche come paese). Poi, nella catena alimentare milanese, più in basso, anche tanti mostri, sòla, cialtroni, uffici stampa, pr, organizzatori di eventi e splendide cornici.

 

Il problema è che Milano funziona troppo, e Beppe Sala, anzi Beppesala, come il suo profilo Instagram, è parte del problema 

 

Tutto va bene a Milano ed è attutito in una bolla di rispetto e polveri sottili. Tutto è piccino e attutito e nulla può far davvero paura in questa città stato dagli alti muri. Forse Milano alla fine non ha alcun merito di questo suo nuovo status sovranazionale. Forse era semplicemente lì pronta a sbocciare, in attesa della concatenazione di eventi: 1) l’alta velocità; 2) il cambiamento climatico, che ha reso azzurro il cielo e visibili le architetture magnifiche e meno lugubri i risvegli; anche se la Pianura padana è uno dei posti che si sta riscaldando più velocemente nel mondo: negli ultimi cent’anni, dicono, la temperatura media è cresciuta di altri 2,5 gradi. E diventerà “come il Pakistan, o un deserto africano”, di qui ai prossimi cento; 3) iI secolo in cui si prendono sul serio le stronzate e l’ironia è sospesa. Il discorso sulle serie, i giornalisti delle serie, le serate a guardare le serie. Era come se Milano con la sua attenzione per l’effimero e la sua mancanza di ironia fosse lì pronta a sbocciare per cibo, piante, telefilm. Gli instagram dei trentenni milanesi, nelle loro stanze in affitto a seicento euro al mese, son pieni di raccontini, pisolini, vetrine, piscine (misteriose). Dicono che si scopi comunque poco. Si passa moltissimo tempo su Instagram, del resto. Tutto questo, è ovvio, è detto solo per invidia.