Replica gagliarda di una gran milanese alla passeggiata in città di Masneri, che non le è piaciuta proprio

Marina Terragni

Il ritratto pubblicato sul Foglio è l’elegante blues di un provinciale che forse da questa città si aspettava di più. Non ha niente a che vedere con la città in cui sono nata e vivo

Al direttore - Il titolo che voi del Foglio gli avevate dato era carino, me lo ricordo ancora, “Da Berluscones ad Aranciones”, ormai un sacco di anni fa. Era il 2011.

  

Raccontavo sul vostro giornale quello che stava per capitare a Milano e che poi in effetti è capitato. Quella specie di moto risorgimentale che a breve e in un colpo solo avrebbe liberato la città di giunta Moratti e berlusconismo per dare avvio a una nuova fase politica.

   

Giuliano Ferrara mi invitò a spiegarlo a Roma, al Capranichetta. Gli toccò fare da scudo umano alla furia dei berlusconidi che mi si avventarono contro. Mi si volevano proprio magnare, scena poi immortalata da una splendida vignetta di Vincino. Questo per dire che di Milano me ne intendo, milanese come sono di terza generazione da parte di madre, da tempo immemorabile da parte di padre. Conosco bene la mia città e anche la sua assoluta incomprensibilità fuori dalla Cerchia dei Navigli, pertanto ho fatto il callo alle caricature e alle cretinate con cui la si racconta. Ciononostante il pezzo di Michele Masneri (“Contro Milano”) mi ha lasciato a bocca aperta. Per una volta, se permettete, ho reagito da non milanese, come reagirebbe un cittadino di Matera, di Nuoro, di Reggio Calabria o di Alessandria: con il ribollimento del sangue. Chiedo perciò giustizia e diritto di replica a tutto quell’arbasineggiare o gambardellare, a quell’esercizio di stile, a quella palese assenza di passione civile che riesce a farmi stare simpatiche perfino le Sardine.

   

Il ritratto di Milano by Masneri è l’elegante blues di un provinciale che forse da questa città si aspettava di più. Da Milano si aspettava forse, che so, un po’ di mondanità, che qui non esiste, un po’ di feste da far fallire, cose così. Quel suo ritratto forse è buono giusto come depliant turistico per gente di bocca buona. Non ha niente a che vedere con la città in cui sono nata e vivo. Se dovessi raccontare Milano a uno che non ne sa niente magari comincerei col dire che è una specie di Paese dei Balocchi, una Città dei Bambini. Un sacco di gente qui ha meno di trent’anni e a breve l’età media sarà di 40, anche se di figli si continua a farne pochi. Ragazze e ragazzi che vengono da tutta Italia, dall’Europa e dal mondo a studiare e lavorare. Giri per strada con i tuoi -anta e ti senti un Mocio Vileda in mezzo a tanto splendore ormonale: ok boomer. Tutti quei commoventi accenti freschi di giù: “Sì mamma che mangio”, “No mamma, non fa freddo”, anche perché ormai tragicamente fa sempre e solo caldo. Ecco: coltivando io un perverso interesse per la realtà avrei cominciato di qui.

  

Per capirci, è quello che è capitato a Berlino nel recente passato, e zio Beppe con la sua squadra è in corsa contro il tempo per una politica di housing adatta ad accogliere tutta questa gioventù che ci carica le pile, in 24 ore diventa milanese (non “coreana”: milanese), lo stesso tempo, per dire, che ci metti a diventare newyorkese. E comincia dannatamente a spingere. Spingere insieme: questa è la chiave che ti fa capire Milano se hai davvero voglia di capirla, e che ti fa diventare milanese all’istante. Il moto risorgimentale di cui dicevo è stato questo: ricominciare a pensarsi come una comunità, salutare all’unisono il tycoon di Arcore, via giacca e cravatta e spingiamo come pazzi.

 

Se dovessi scegliere un’istantanea successiva sarebbe quella di domenica 2 maggio 2015, a poche ore dall’inaugurazione di Expo, dopo che quei deficienti di no-Expo avevano imbrattato muri e spaccato vetrine. Un enorme corteo spontaneo, gente di ogni età con spugne, spazzoloni e detersivi per ripulire e aggiustare. Una gigantesca casalinga di Voghera che in attesa degli ospiti risistemava casa dopo il passaggio dei vandali. Attività che prosegue più o meno ogni fine settimana, cittadini con spazzole e pittura che girano per i loro quartieri a cancellare graffiti o raccattano le bottiglie abbandonate nei parchi dai borrachos. Perché qui abbiamo anche i borrachos: dai simpatici filippini, la comunità più numerosa, ai misteriosi lesothiani, quasi il 20 per cento della popolazione è straniera, in alcuni quartieri siamo al 50. I guai non mancano, ma tutto sommato le cose vanno bene e non ci siamo disintegrati. Questa per esempio è un’altra cosa che si poteva menzionare.

 

Capisco che tutto questo non sia affatto glam: siamo gente che va fiera della sua raccolta differenziata record, ci basta poco per essere felici. Ora mettiamo anche le mani nella terra e piantiamo alberi, parte lo splendido piano ForestaMI, 3 milioni di nuove piante contro l’inquinamento e il surriscaldamento, e di lì i 22 milioni di alberi per Parco Italia, capo progetto Stefano Boeri.

 

Io, tanto per dirne una, sono felice perché non ho più la macchina – se non sbaglio non ce l’ha neanche zio Beppe – non ho nemmeno un motorino, con i mezzi pubblici arrivo dappertutto, nel giro di un paio d’anni arriverò anche a Linate in 13 minuti di metrò. Cose davvero tristi. Certo che se invece che un reportage hai in mente di fare un cinepanettone – onore ai Vanzina, gente seria – tutta questa roba triste non ti serve, hai bisogno di inventarti i neo-cumenda, di fare di Myss Keta un pilastro identitario: informo che qui non se la caca nessuno, io per esempio l’ho vista per la prima volta in tv dal romanissimo Zoro. Anche la Myss è milanesità da export.

  

Se vuoi che ti si dica: “Hey, che pezzo spettacolare!” allora devi scrivere di quei “tutti a vedere la nuova galleria di Massimo De Carlo lo stesso giorno, tutti al Piccolo a vedere lo stesso spettacolo, tutti a villa Necchi Campiglio, poi Louis CK e via a mangiare il poke o in fondazione Prada”. Tutti che poi non si sa bene chi siano, perfetta allucinazione di un climber di provincia che a quanto pare sbatte come una mosca in un bicchiere perché non riesce a capire quali sono le cose giuste da fare per entrare nei giri giusti, quelli dei “tutti”.

  

Bene, una notizia: qui giri giusti non ce ne sono, e in ogni caso informo che quelle cose lì, Massimo De Carlo e Louis CK, sono le cose sbagliate.

  

Personalmente a Villa Necchi sono stata un paio di volte, una per portarci la mia mamma vecchietta ad assaporare il meraviglioso understatement portaluppiano delle due Gigine; e in Fondazione Prada tre o quattro volte per qualche bella mostra. Eppure non sono esattamente una giargiana.

  

Resta da dire qualcosa su Beppe Sala: sono andata a farmi la conta meticolosa su Instagram, avrà postato una trentina di volte in 3 mesi, mentre Masneri dà l’idea che si tratti di un social media maniac. Beppe Sala non è facile da spiegare a un non milanese, proprio come non è facile raccontare Milano. Il tipo antropologico è il piccolo-medio imprenditore della Brianza, del resto viene da lì. Un lavoratore da paura. Quello che magari il sabato sera va anche in discoteca, preferibilmente a ballare la disco di Giorgio Moroder, perché tanto la domenica mattina può svegliarsi alle 7 invece che alle 5 o alle 6, e comunque fa in tempo per la Santa Messa delle 10: mai dimenticare il cattolicesimo ambrosiano, quando si parla di Milano! Rileggersi “I Promessi sposi”! Uno che fa il figo con le calze arcobaleno ma non capisce perché mai si debbano levare i crocifissi nelle scuole. In poche parole, uno che si fa un mazzo così.

  

Non si nega mai, va dappertutto, parla con tutti, prende aerei e gira i quartieri come un forsennato, risponde a fulmine a sms e Whatsapp, fa un sacco di buone cose, probabilmente ne sbaglia altrettante, ha un grande fiuto per gli affari, una notevole ambizione e un grande amore per la sua gente, è spiritoso, sentimentalmente inquieto, interista e vigorosamente antifascista, una seria malattia lo ha segnato lasciandogli in eredità un certo fatalismo e un notevole entusiasmo per ogni giorno che sorge. A lui e a tutta la sua squadra gratitudine per tanto lavoro.

  

Problemi? Certo, un bel po’. Le periferie hanno bisogno del massimo di attenzione e delle cose giuste, non di carità vincenziana, ed è difficile cambiare registro. Il consumo di suolo va tenuto sotto controllo. La finanziarizzazione della città va arginata. Orizzonte e visione vanno messi a punto. Sala indica “questione ambientale ed equità sociale” come binari del treno, ed è un buon punto di partenza per la seconda parte del suo primo mandato e, si spera, per il secondo.

  

Certo: la mia parte terrona, corroborata da un marito totalmente terrone, solidarizza anche con il Provenzano’s complaint. Quel ragazzo con i capelli rossi ci piace, ma forse anche lui non ha del tutto capito. E anche il Foglio a me carissimo a quanto pare non ha capito se fa uscire pezzi come questi alla vigilia di una campagna elettorale, quella per il presumibile secondo mandato di Sala, che sarà una battaglia campale, subito dopo quella per l’Emilia.

  

Milano è il main trophy per Matteo Salvini. Qui sono le chiavi economiche, qui il consolidamento storico definitivo. Solo di qui la glassa sovranista potrebbe colare giù per lo Stivale e ricoprirlo definitivamente. Matteo è milanese e vuole Milano più di ogni altra cosa, sa che finché non ci metterà le mani la sua impresa sarà a rischio. Milano è la sua spina nel fianco. D’altro canto solo Milano potrebbe scuotersi la Lega di dosso con un colpo di reni, e levarla di dosso al resto del Paese.

  

Provenzano sembra non avere compreso che il resto del paese, quello oltre il fossato, il paese che poi è l’Italia e che i milanesi amano struggentemente per quanto poco ricambiati, dovrebbe prepararsi politicamente e strutturalmente ad accogliere Milano (l’espressione è “modello Milano”, ma non mi piace troppo, è già invecchiata) anziché perdere il tempo tra lamento e –non è il suo caso- sbeffeggio. Dovrebbe finalmente provare a capirla, questa città, come la capiscono e la amano i figlietti siculi, calabresi e lucani che vengono qui a vivere e a lavorare, e che speriamo prima o poi possano tornare giù portandosene in valigia un bel po’, in modo che le prossime generazioni riescano finalmente praticare la restanza, o remain.

  

Noi tutte e tutti di buona volontà qui ci stiamo preparando al combattimento strada per strada. Il cambio di giunta del 2011, lo switch da Berluscones ad Aranciones, sembrerà uno scherzetto.

 

Quindi amici del Foglio: cogliete lo Zeitgeist, cercate di volerci bene nonostante la nostra proverbiale antipatia e la nostra socialità stiptica, da gente che lavora h24 (facciamo 23, un’ora è per la palestra, se no crepiamo: ecco un’altra cosa da segnalare, le palestre come nuovi “centri anziani”).

   

Masneri potrebbe sempre applicare la sua pregevole prosa a oggetti più consoni al suo talento.

 

Marina Terragni

 


  

Michele Masneri ha scritto un pezzo formidabile per descrivere l'incapacità di molti milanesi di osservare la propria città senza le lenti spassose della superiorità antropologica. Masneri sosteneva che il principale difetto di chi vive beatamente a Milano sia aver contribuito a trasformare l’amore per Milano in un sentimento fideistico non troppo diverso dal codice d’onore che governa la vita degli iscritti a Scientology, i cui membri probabilmente accetteranno sulla propria “chiesa” molte più critiche rispetto a quelle accettate dai milanesi sulla propria città culto. Masneri ha scritto che Milano ha praticamente tutto tranne che un po’ di autoironia. La lettura della sua interessantissima lettera ci suggerisce, se mai ce ne fosse bisogno, che Masneri aveva ragione e che il dibattito merita un’altra puntata, che troverete sabato sul Foglio. Smack.

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