Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nei giorni scorsi in Lombardia per la prima volta dall’inizio dell’epidemia. Nella foto LaPresse, l’incontro di ieri con i sindaci del Lodigiano

Non è andato tutto bene

Alessandro Barbano

Se la pandemia ha testato il livello di efficienza delle democrazie, l’Italia non può vantare grandi successi. Gli errori commessi nella fase 1 saranno utili per la fase 2. Un catalogo

Mentre ci apprestiamo, tra mille dubbi, a mettere alle spalle il lockdown più oneroso d’Europa, il lockdown dà di sé due performance molte diverse, su cui riflettere. La prima è reale: riguarda i numeri del paese che del lockdown ha dato un’interpretazione liberale, in linea con la sua cultura: la Svezia. Duemila morti, in rapporto alla popolazione meno della metà dell’Italia, il picco dei contagi raggiunto il 15 aprile scorso, nessun divieto ma tante raccomandazioni sull’igiene personale, sul distanziamento sociale, sulla protezione degli ultrasettantenni e dei gruppi a rischio, sull’uso corretto dei mezzi pubblici, ma con scuole aperte, uffici e fabbriche a mezzo servizio, economia parzialmente salva. E un solo errore: non aver protetto, nella prima fase dell’epidemia, gli ospiti delle residenze per anziani, dove si conta un quarto dei decessi totali. Errore peraltro ammesso dalle autorità, a differenza di quanto accade in Italia. Dove – caso unico tra tutti i paesi colpiti dalla pandemia – nelle residenze per anziani sono stati allocati i malati di Covid, ma della strage che ne è seguita nessuno vuole attribuirsi la paternità.

 

La seconda performance del lockdown è virtuale. Si riferisce a uno studio dei tecnici del ministero della Salute, realizzato a gennaio e secretato per volontà del ministro Roberto Speranza. In 55 pagine di grafici e tabelle c’è scritto che, se il governo non avesse fermato i motori dell’economia, isolato le zone rosse e chiuso in casa le persone, i morti sarebbero stati tra 600 e 800 mila.

 

Dopo aver spento il paese per due mesi, questo studio può voler dire due cose. Che i 26 mila morti italiani sono un risultato consolante, ancorché pagato con 10-15 punti di pil. Oppure che quelle previsioni sono puri modelli matematici, ma senza realtà. Cioè spazzatura. Ma finché lo studio è secretato, nessuno lo potrà valutare. Né esiste una controprova fattuale, che ci mostri che cosa sarebbe accaduto in Italia, se avessimo adottato la più selettiva strategia svedese. Perché noi abbiamo fatto il contrario, e siamo ancora imbracati nel più rigido lockdown europeo.

 

Da nessuna autorità scientifica o politica è venuta una spiegazione plausibile della straordinaria letalità del coronavirus in Italia

Però le performance scandinave devono farci riflettere, anche se Stoccolma non è Milano, e anche se non è la stessa cosa disporre il distanziamento sociale nella tundra scandinava o piuttosto nella costiera amalfitana. Devono farci riflettere perché, adesso che si respira aria di ripartenza, al modello svedese dovremo rifarci. Se pure il contagio tornasse in autunno impetuoso, come molti virologi, ipotizzano, noi spegneremmo nuovamente il paese? A questa domanda non c’è oggi un solo scienziato e un solo politico italiano che risponderebbe di sì. Gli stessi che, in nome dello slogan “prima la vita”, hanno confinato gli italiani tra le mura domestiche per due mesi adesso si adoperano a spiegarci che dobbiamo imparare a convivere con il virus, cioè accettare il rischio. Ma scusate: la vita vale meno in autunno che in primavera?

 

Alla stessa classe dirigente sarebbe utile chiedere quali delle scelte di politica sanitaria che, tra Roma e Milano, hanno caratterizzato la fase 1, ripeterebbero nella fase 2. Perché da nessuna autorità scientifica o politica è venuta una spiegazione plausibile della straordinaria letalità del coronavirus in Italia, se si eccettuano improbabili giustificazioni, come l’anzianità della popolazione, la convivenza dei giovani in casa, l’inquinamento e altre amene leggende sanitarie. Proviamo allora a ripercorrere alcuni snodi chiave della nostra strategia di contrasto alla pandemia, proiettandoli, con i debiti scongiuri, nel futuro ipotetico di una nuova fiammata: 1) bloccheremmo oggi i voli da un paese a rischio, impedendoci così di tracciare i passeggeri che rientrano attraverso triangolazioni con scali di paesi aperti? 2) Rinunceremmo a estendere il numero dei tamponi, utili a tracciare una mappa del contagio sul territorio? 3) Ospedalizzeremmo la crisi, trasformando i pronto soccorso nel front office del contagio, anziché rafforzare il filtro della medicina di base? 4) Allocheremmo, come accaduto in Lombardia e in Piemonte, i malati di Covid nelle residenze per anziani, anziché requisire cliniche private o perfino alberghi e altre strutture ricettive?

 

Se, com’è presumibile, la risposta a queste domande è un “no” convinto, deve desumersi che la fase 2 sarà anzitutto una fase 1 senza gli errori che l’esperienza ci induce a riconoscere e a non ripetere. E’ tuttavia innegabile che alcuni di questi errori siano figli di handicap del nostro sistema sanitario. Il primo riguarda la medicina di base. Che è stata portata fuori dalla gestione dell’emergenza, per compiacere a una pretesa corporativa dei camici bianchi. Lo smantellamento di questo diaframma tra la malattia e l’ospedale è un deficit cronico, ben noto ai ministri che hanno governato la sanità negli ultimi decenni. Non a caso, le astanterie degli ospedali del centro-sud durante i week end invernali scoppiano di barelle a ogni epidemia di influenza, offrendo alle telecamere dei tg uno spettacolo indecoroso. Il secondo handicap riguarda le infrastrutture rianimatorie: all’inizio della crisi in Italia c’erano 5.090 posti letto di terapia intensiva, contro i 28 mila della Germania. Che ha avuto i tre quarti dei nostri contagi, ma ha pagato un prezzo di vite incommensurabilmente più basso.

 

L’idea che la prudenza ci salvi sempre è pericolosa. La depressione, travestita di prudenza, può spegnere del tutto un paese

Di fronte a questi numeri si riavvolge, come in un film, il biennio gialloverde e giallorosso, passato a distribuire redditi di cittadinanza e pensioni a go-go, e a discutere per mesi e mesi su come fermare prima gli immigrati e poi la prescrizione. Che cosa è stato fatto, in questo tempo, per aumentare l’efficienza dei servizi nel nostro paese? E quando a gennaio tutti i virologi ormai sapevano che il virus sarebbe arrivato anche in Italia, che cosa è stato fatto per non trovarci nudi, per settimane senza neanche la protezione di una mascherina? Può assolverci il fatto che altre grandi democrazie, come Stati Uniti e Spagna, si siano scoperte altrettanto impreparate?

 

Se la pandemia ha testato il livello di efficienza delle democrazie, per l’Italia è stata una Caporetto. Di cui portano responsabilità, in egual misura, la politica e gli scienziati, i leghisti e le sinistre a Palazzo, la sanità lombarda e il governo. Il numero delle vittime, tra cui medici e paramedici in una misura che non ha eguali, interi ospedali e residenze assistenziali contagiate rappresentano un bilancio disastroso. Siamo entrati nel tunnel dei contagi convinti di essere assistiti dalla migliore sanità del mondo. E ne siamo usciti a pezzi. Ciascuno degli errori qui indicati ha una matrice politica e culturale ben precisa. Il gap infrastrutturale della sanità e l’impreparazione rispetto all’arrivo del virus sono entrambi ascrivibili a un cronico deficit di gestione dei servizi pubblici. Che solo in parte può spiegarsi con i contestati, e non sempre reali, tagli alla sanità. La insufficiente dotazione di posti di terapia intensiva risponde a una mancata riorganizzazione del modello ospedaliero attorno alle nuove frontiere terapeutiche e alle priorità del territorio. Dove la gestione regionale transige con interessi corporativi che sono da sempre fonti del consenso elettorale. E dove l’indirizzo e il coordinamento dello Stato sono venuti perdendo ruolo negli ultimi due decenni.

 

Agli stessi interessi corporativi soggiace il destino della medicina di base. Diversi ministri della Salute hanno invano tentato di promuovere e attrezzare attorno ad essa ambulatori e altre strutture di territorio h24, in grado di evitare l’ospedalizzazione obbligata della malattia. Ma le resistenze dei sindacati dei medici hanno avuto sempre la meglio. Se si eccettuano alcune esperimenti in poche regioni, gli ambulatori non sono mai nati, e il medico di famiglia si è tenuto fuori dal perimetro dell’urgenza, trasformandosi in un burocrate che scrive le ricette a richiesta.

 

Il gap infrastrutturale della sanità e le impreparazioni sono entrambi ascrivibili a un cronico deficit di gestione dei servizi pubblici

A un deficit di policies pubbliche si aggiunge la subordinazione di queste alle suggestioni correnti delle cosiddette politics. La controproducente chiusura dei voli dalla Cina, incautamente decisa dal ministro della Salute Roberto Speranza, è espressione dello strisciante populismo che piega perfino le scelte sanitarie più delicate alle ragioni del consenso. Quanto quella decisione si sia rivelata maldestra è ormai un dato acquisito. Allo stop del traffico aereo, gli studenti e gli uomini d’affari che rientravano dalla Cina hanno optato per una triangolazione con i paesi dell’Est, eludendo una necessaria tracciabilità del loro percorso.

 

Più complessa è la valutazione del lockdown, nel rapporto tra risultati epidemiologici e costi economici e sociali. Con una delega in bianco la politica ha consegnato la gestione della crisi agli esperti, che sono venuti via via assumendo, senza filtro, decisioni politiche. Una visione per così dire virologica ha surrogato la responsabilità della classe dirigente del paese. Con l’effetto che è mancata un’adeguata comparazione tra le misure intraprese e i prezzi da pagare. Lo slogan “prima la vita” è servito a legittimare insieme la supplenza degli scienziati e la rinuncia dei rappresentanti del popolo. Almeno fino a quando le stime del Fondo monetario per il 2020 non hanno mostrato che la decrescita del pil italiano era due punti più grave di quelle tedesca e francese, e tre punti della media dei paesi sviluppati. Solo da quel momento si è compreso che la difesa della vita è un’attività complessa, non misurabile solo con la conta dei cadaveri.

 

Le sfide? Fiducia o piuttosto autoritarismo, fiducia o centralismo, fiducia o moralismo intransigente, fiducia o depressione

Chi scrive non può, né vuole confutare la competenza degli scienziati. Tuttavia, se anche il cosiddetto lockdown deve considerarsi una misura epidemiologica necessaria, è certo che le sue modalità implicano scelte politiche. Politica è una premessa avanzata dagli esperti e avallata dal governo. Si fonda sulla convinzione che gli italiani siano un popolo anarchico e disobbediente alle regole. Si tratta di un pregiudizio vecchio e illiberale, e come tutti i pregiudizi privo di fondamento, ancorché radicato nel senso comune. A crederci è soprattutto una parte della classe dirigente, abituata a vivere nel privilegio e quindi a proiettarlo, erroneamente, nei comportamenti collettivi. Così sono state subito scartate una strategia del blocco parziale e una pedagogia del distanziamento sociale fondate su un principio di potenziamento dei doveri civici e di responsabilizzazione. Si è preferita la chiusura totale di qualunque attività, con divieti e sanzioni che hanno letteralmente spento il paese.

 

Un’onesta analisi delle performance dei singoli stati, e in Italia anche delle singole regioni, mostra che una lotta al virus condotta sul territorio con tamponi preventivi diffusi per individuare e isolare il contagio, blocchi selettivi sui focolai, una protezione degli anziani e dei gruppi a rischio, una sapiente opera di persuasione della cittadinanza sul distanziamento sociale e sull’adozione di misure di igiene producono migliori risultati, con minori costi economici e sociali. La diversa risposta alla crisi della Lombardia e del Veneto è ancora un tabù. Per l’orgoglio di due scuole mediche e per l’imbarazzo di due classi dirigenti, ugualmente leghiste, ma diverse per cultura di governo ed esperienza. Ma un’analisi empirica del rapporto tra numero di tamponi eseguiti e vittime suggerisce che la scelta del governatore Zaia è risultata vincente. Intercettare il virus sul territorio ha premiato il Veneto come la Basilicata. Per converso il rientro al Sud di molti pendolari non ha incendiato i contagi più di quanto abbiano fatto alcune incomprensibili decisioni delle autorità sanitarie, come quella di ricoverare i malati di Covid nelle residenze per anziani.

 

Si aggiunga che divieti e sanzioni in Italia sono stati disposti attraverso singolari decreti del premier, talvolta in violazione delle prerogative del Parlamento. L’amputazione delle forme democratiche è l’ultima, e non debitamente considerata, conseguenza di una reattività autoimmune della democrazia italiana. Che ha solo parzialmente risposto all’esigenza di velocizzare le decisioni, ma ha segnato un solco profondo nel dialogo tra le istituzioni, aprendo una crisi mai vista nel rapporto tra stato e regioni e una altrettanto grave, ancorché meno visibile, sospensione della democrazia parlamentare. L’Italia è entrata nel tunnel del coronavirus in una fase di grande conflittualità politica. Di primo acchito la pandemia ha avuto l’effetto di mettere la sordina alle tensioni interne alla maggioranza giallorossa, impegnata e divisa da mesi in un estenuante dibattito sulla prescrizione, la cui vacuità oggi si rivela per intero di fronte alla crisi economica e sociale in cui versa il paese.

 

La ridottissima agibilità del governo Conte e l’irresolubilità dell’impasse hanno trovato nell’emergenza una sorta di congelamento, ben accolto da tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, alle prese con una transizione non facile. In queste condizioni lo slittamento verso un governo del premier dettato dall’eccezione ha coinciso con una conveniente rinuncia delle leadership a giocare un ruolo. La gravità della crisi e lo shock prodotto nella classe dirigente ha suggerito alla politica un atteggiamento parassitario, nel timore di vedersi imputare la responsabilità di un dilagare del contagio. La delega in bianco ai tecnici si spiega così.

 

Dopo gli anni di una rivendicata disintermediazione, il sapere è tornato alla ribalta scalzando il potere dalla stanza dei bottoni, ma anche dalla sua proiezione mediatica. Virologi, infettivologi, immunologi, autorità nel contesto scientifico in cui hanno maturato la loro carriera, ma perfetti sconosciuti al grande pubblico, sono diventati i veri decisori politici nei giorni più drammatici della pandemia. Il loro comitato tecnico scientifico è via via venuto assumendo una sacralità sacerdotale, una sorta di sinedrio incontestabile che deliberava su tutti gli aspetti della nostra vita, in nome di un’inedita assolutezza. Che questo dovesse accadere era in parte giusto e prevedibile. Ciò che caratterizza il caso italiano è pero l’assenza di filtro, cioè la rinuncia del livello politico a valutare il prezzo delle decisioni suggerite dagli esperti e ad assumerle con un atto di responsabilità. Cosicché nei fatti gli scienziati hanno dato l’impressione di mettere sotto tutela la democrazia italiana, con un patronage simile a quello esercitato dai magistrati in non poche stagioni della nostra recente storia repubblicana. Con un elemento in più, legato al ruolo decisivo che i media giocano nella formazione del consenso: gli scienziati sono diventati per mesi nostri compagni e consiglieri nel salotto televisivo, a cui ci siamo consegnati con una dipendenza mai vista prima. Davanti alle telecamere, alcuni di loro hanno trascorso un tempo così ampio che veniva da domandarsi quanto gliene restasse per combattere la pandemia.

 

Nella fase che si apre ora per il paese, il perdurare della crisi sanitaria s’intreccia con le sue pesanti ricadute sull’economia e sulla società. E chiama la politica a una riassunzione di responsabilità imprescindibili. Dobbiamo capire che la scelta di una strategia segregazionista non è stata fin qui casuale. Racconta in controluce la fragile salute della democrazia italiana e un deficit di fiducia della classe dirigente che la guida. Eppure, contro il rischio permanente di un contagio, che può riesplodere, non abbiano altro mezzo che questa virtù laica e liberale: la fiducia. Fiducia o piuttosto autoritarismo, fiducia o centralismo, fiducia o moralismo intransigente, fiducia o depressione.

  

E’ la depressione che ci fa vedere la fase 2 come una montagna insormontabile. Un effetto della lunga segregazione a cui ci siamo sottoposti, introiettando l’idea che, stando immobili, siamo al riparo. Vale per i cittadini. Ma anche per chi decide. Ed è tentato dall’idea che la prudenza ci salvi sempre. E’ vero il contrario. La depressione, travestita di prudenza, può spegnere del tutto un paese. Se non sapremo coltivare la fiducia, non ci resterà che avere Speranza.

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