Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Giggino ci sta

Valerio Valentini

Gli attacchi a Casaleggio, le pose da statista, i segnali al Colle. Così Di Maio, “il cinese”, prepara il suo M5s alla crisi

Roma. Pier Ferdinando Casini, che la cronotabella della crisi ce l’ha ben chiara in mente (“Sin da quando la popolarità di Conte era ai massimi”, rivendica), giura che Luigi Di Maio alla fine sarà l’ultimo ad arrivarci, ma ci arriverà. E non perché il ministro degli Esteri sia tardo. “E’ che la politica ha i suoi tempi, e i tempi devono maturare”. Ma forse ciò che Casini sottovaluta, in Di Maio, non è già la precocità dell’intelligenza, ma la forza della paura. Perché se è vero, come un suo collega di governo e di Movimento gli riconosce, chissà se più con stima o con dileggio, “che Luigi è un sughero e sa sempre come galleggiare”, è anche vero che per l’enfant prodige di Pomigliano l’acqua in cui nuotare rischia di finire. Ed è per questo che, fiutando puzza di bruciato, considerando incombente seppur non imminente il precipitare degli eventi, ha deciso di far recapitare, attraverso i suoi emissari, un messaggio in bottiglia agli alleati del Pd: “Per un altro governo, magari senza Conte, Luigi ci sarà”. 

  

D’altronde, è chiaro a tutti che, se davvero dovrà nascere un nuovo esecutivo, la maggioranza che lo sostiene non potrà fare a meno del M5s: pure considerando l’opzione “Ursula”, con dentro Pd, Forza Italia e Italia Viva, servono comunque una ottantina di deputati e una trentina di senatori grillini. E la sfida implicita tra Conte e Di Maio è proprio questa: essere il garante del M5s – di tutto o di una parte comunque consistente – nel transito verso il nuovo assetto. Lo sa anche il premier, che non a caso va intensificando i suoi legami con le pattuglie parlamentari, con uno scrupolo perfino eccessivo per chi nel frattempo deve guidare un paese in balìa di epidemia e recessione. Glielo dicono anche le sue sentinelle alla Camera e al Senato, che la palla è ormai sul piano inclinato, se è vero che perfino un mite e conciliante come Federico D’Incà è rimasto sorpreso della fermezza con cui i capigruppo del Pd, Andrea Marcucci e Graziano Delrio, hanno contestato al premier la marginalizzazione del Parlamento nella gestione della crisi. “Se neppure D’Incà riesce a mediare – sospira un sottosegretario grillino – vuol dire che l’ora x è davvero scattata”. Ed è un’ora in cui difendere Conte risulta difficile perfino per i vertici del M5s: perché, al di là del merito delle scelte, è proprio l’isolamento del premier, il suo agire in modo spesso autonomo e imprevedibile, che viene contestato.

 

E forse è anche per questo che Di Maio, per converso, continua a lanciare – senza in realtà fare granché clamore – appelli all’unità e alla responsabilità delle forze politiche. Lui, quello che si sbracciava dal balcone di Palazzo Chigi e incoraggiava i gilet gialli a tenere duro, ora si batte il petto e mostra la faccia pulita del ragazzo che si applica, tra app di contact tracing di cui non ricorda bene il funzionamento e ragionamenti non proprio inappuntabili in cui mescola prestiti e finanziamenti a fondo perduto come se fossero la stessa cosa. Di Maio recita insomma la parte dell’uomo di stato, e non a caso la sua bacheca Facebook è da settimane tutto un fiorire di tricolori, senza neppure un accenno di giallo, senza l’ombra del simbolo del M5s. Lui che aveva chiesto l’impeachment per Mattarella, da un paio di settimane ne va vagheggiando addirittura una riconferma al termine del settennato, in una velleità di lusinga nei confronti del capo dello stato che al Quirinale deve essere subito apparso come un tentativo di riguadagnare la stima perduta.

 

Ha addirittura aperto il fuoco contro Davide Casaleggio, giorni fa, lasciando trapelare tutte le sue critiche a quella fetecchia di Rousseau: guadagnandosi, non a caso, l’apprezzamento di tre quarti dei gruppi parlamentari, che Di Maio non bazzica più quasi per niente ma che pure sa ancora come blandire. E forse attaccare Rousseau serviva però anche a lanciare un altro segnale, stavolta fuori dal M5s: per dire che le scelte future del Movimento, e quantomeno di quel Movimento che ha in testa Di Maio, non passeranno certo dalla piattaforma milanese e dai suoi volubili umori, ma verranno prese in virtù di quel “pragmatismo” che lui stesso ha invocato a proposito dell’atteggiamento da tenere sul Mes.

 

Insomma, Giggino ci sta. Vuole starci, nella nuova cosa che dovrà nascere. E ci starà perché così “può sopravvivere a Conte”, sentenzia ancora Casini. Il quale ieri, nell’Aula del Senato, ricordando il centenario della nascita di Emilio Colombo, s’è esercitato in un appello all’unità per il bene della nazione così persuasivo e così trasversale che qualcuno, al termine, ha perfino azzardato: “E’ nato il governo Colombo”. Largo, ovviamente. Larghissimo se possibile. E improntato a tre valori: “Multilateralismo, Europa e atlantismo”. E semmai questo è il vero impedimento: perché Di Maio è di gran lunga il più filocinese dei ministri degli Esteri della storia d’Italia. “Capirà”, sospira Casini. “E del resto la Farnesina è un’alta scuola di formazione”.

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