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All'Italia serve una politica estera vaccinata dalle fake news

Marina Sereni

Niente ipocrisie sull’Europa, niente tentazioni nazionalistiche, niente sovranismi. Un’agenda per il post lockdown

Celebrare il 1 maggio nell’epoca del coronavirus significa, ancora di più rispetto al passato, celebrare il lavoro e la sua dignità come cardine della persona umana e del suo rapporto con la società. Tra le conseguenze del Covid19 dovremo infatti affrontare una crisi economica senza precedenti, la perdita di molti posti di lavoro e un’inevitabile crescita delle povertà e delle tensioni sociali. La situazione di volatilità e incertezza sull’andamento del contagio obbliga ad una riflessione sul futuro e sugli scenari del mondo post-COVID. Il dibattito nazionale e internazionale è dominato da alcuni “mantra”: alcuni sono corretti, altri imprecisi, altri sono poco più di retorica. Andiamo per ordine.

Siamo in guerra. La retorica bellica può essere utile in termini di mobilitazione dell’opinione pubblica e senso di disciplina dei cittadini. Ma non siamo in guerra. Siamo semmai entrati in un conflitto a bassa intensità contro un nemico invisibile e difficile da decifrare, con un elevatissimo grado di mobilità. La differenza è sostanziale. Questo tipo di conflitti richiedono innanzitutto determinazione e resilienza e, soprattutto, la capacità di “conquistare i cuori e le menti” dei cittadini.

 


Il Covid-19 ha evidenziato limiti della delocalizzazione indiscriminata e dell’estensione illimitata delle catene di valore. La risposta non è l’autarchia, ma il ripensamento delle catene di valore in macro-aree, in cui il vantaggio competitivo è determinato dalla prossimità dei mercati, non dai costi di produzione


 

Nulla sarà come prima. E’ vero. Il mondo post-Corona sarà diverso. Potremo assistere ad un’accelerazione delle tendenze emerse nell'ultimo decennio: declino del ruolo delle Nazioni Unite e degli altri fora di governance mondiale, a partire dall’Organizzazione Mondiale del Commercio; bipolarismo asimmetrico USA-Cina con un riequilibrio a favore di Pechino; messa in discussione dell’architettura istituzionale dell’UE; crescita delle tendenze populiste e sovraniste. Questo scenario non è scontato. Alternative sono possibili. Ma richiedono una rinnovata capacità di leadership globale.

 

My country first. E’ la risposta più semplice, che però ha mostrato tutti i suoi limiti già nella fase emergenziale con la “scramble for masks” a cui tutti abbiamo partecipato. Il nazional-sovranismo del “prima gli Italiani” gioca la carta truccata delle emozioni. Ma le ricette sovraniste, dal neo-mercantilismo alla chiusura dei mercati, dell’autarchia alle ri-nazionalizzazioni indiscriminate, conducono al disastro economico, all’aggravamento delle diseguaglianze, all’irrilevanza nei negoziati in cui si ridisegnerà il sistema cooperativo internazionale. Il rilancio del lavoro e della crescita in Italia va di pari passo non solo con l’Europa, ma anche con la nostra capacità di guardare allo sviluppo delle aree del mondo per noi prioritarie. Il Coronavirus ha evidenziato tutti i limiti della delocalizzazione indiscriminata e dell’estensione illimitata delle catene di valore. La risposta non è l’autarchia, ma il ripensamento delle catene di valore all’interno di macro-aree, in cui il vantaggio competitivo è determinato dalla prossimità dei mercati, piuttosto che dai costi di produzione, e dalla relativa affidabilità in situazioni di crisi. In questo contesto la scommessa per l’Italia è puntare sulla regione del Mediterraneo allargato come snodo produttivo e logistico e ponte tra Africa e Europa. Ma l’Africa e la regione del Mediterraneo ci riguardano direttamente anche sotto il profilo della prossima ondata del virus. I numeri dei contagiati, per quanto sottostimati in molti Paesi, sono già impressionanti. Il nostro sistema sanitario è sempre stato storicamente la punta di diamante della nostra cooperazione allo sviluppo. Terminata l’emergenza si aprirà una nuova fase in cui saremo noi a dover dimostrare, nel nostro stesso interesse, di avere ben chiaro il significato della solidarietà nei confronti dei popoli a noi più vicini.

Business as usual. Non dobbiamo credere nemmeno alle sirene di chi auspica o prevede il ritorno a breve della normalità. La globalizzazione senza regole non può e non deve essere la normalità. Essa ha provocato, in alcuni casi, una crescita esponenziale delle diseguaglianze all’interno degli Stati e ne ha fragilizzato il tessuto economico e sociale. Basti pensare, per esempio, alla situazione della comunità afro-americana negli USA, alla situazione dei lavoratori “informali” in tutto il mondo, allo “status” dei migranti regolari e irregolari, all’aumento della violenza sulle donne. Il virus ha fatto semplicemente da detonatore di un disagio sociale molto più esteso rispetto a quanto veniva raccontato da molti osservatori. Molto dovrà cambiare. Il distanziamento sociale è l’antitesi dell’interdipendenza e della connettività che sono alla base della globalizzazione. Le regole che ci siamo auto-imposti in questi mesi dimostrano che tutti fenomeni, anche i più complessi, possono essere gestiti. E che è fondamentale lavorare insieme agli altri grandi attori della comunità internazionale per riscrivere l’agenda e le regole di una globalizzazione più equa e sostenibile. In tale contesto, la sanità diventa un “public common good” globale e il diritto alla salute un diritto inalienabile di tutti gli abitanti del pianeta, che si deve tradurre in sistemi sanitari più  forti e d efficienti.

 

L’Europa ci ha abbandonato. Dopo le incertezze iniziali, l’Unione Europea ha messo a punto un pacchetto di misure di sostegno e di rilancio dell’economia che non hanno precedenti. Le cifre in gioco sono straordinarie, incomparabili rispetto al New Deal americano, allo stesso Piano Marshall, alle misure post-2008. E in questo non possiamo non rivendicare con orgoglio la matrice di alcune proposte, come quella per il Sure, il meccanismo di sostegno all’occupazione che riprende lo spirito della proposta Padoan per il sussidio di disoccupazione europeo presentata nel 2015 dal Governo italiano. Molto resta ancora da fare, in particolare sulle condizioni di accesso e la natura dei fondi previsti dal “Recovery Fund”. Ma l’Unione Europea, pur tra le differenze di visione dei suoi 27 Stati membri, sta dimostrando di aver compreso la posta in gioco. E che la partita chiave si giocherà sull’economia, attraverso la creazione di una nuova architettura europea che rafforzi gli ammortizzatori sociali, garantisca lo sforzo finanziario necessario per rilanciare la crescita in condizioni di equità, incida sull’economia reale e sulla competitività complessiva del sistema. Per questa via il tema del coordinamento delle politiche fiscali entra ormai chiaramente nell’agenda come non più rinviabile.

Il mondo post-Covid sarà un mondo nuovo, ancora più complesso. Sarà ancora più fragile e diseguale oppure sapremo renderlo più forte e resiliente proprio perché meno diseguale? Papa Francesco ha tolto il velo alle nostre illusioni ricordandoci che non si può restare sani in un mondo malato. Anche la politica estera – italiana, europea e atlantica – dovrà tener conto di questo monito.

 

Marina Sereni

vicepresidente del Pd e viceministro degli Esteri

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