Un graffito con il ​​presidente degli Stati Uniti Trump, a destra, e il presidente cinese Xi Jinping che si baciano con le mascherine, nel parco pubblico Mauerpark a Berlino (LaPresse)

Quale sarà il futuro della politica post pandemia

Alfonso Berardinelli

L’emergenza dimostra la necessità di rifondare la cultura dei ceti politici

Mi chiedo, anzi chiedo a chi conosce, pensa e segue la politica molto più di me, che cosa sta avvenendo già ora e che cosa presumibilmente avverrà nel prossimo futuro della politica, dei suoi procedimenti e protagonisti, del suo modo di essere e di operare. Me lo chiedo e lo chiedo, perché la mia impressione, forse troppo generica ma certo generale, mi dice che sta rapidamente crescendo, in modo preoccupante, la sproporzione fra i molti problemi mondiali (economia, ambiente, sanità, equilibri di potere) e la capacità politica di fronteggiarli, se non di risolverli. Si tratta di proporzioni: enormi problemi e piccola politica, coinvolgimento diretto della popolazione mondiale e meschinità dei punti di vista di coloro che governano, guidano, decidono che cosa fare, come rimediare, cosa prevedere e programmare.

  

Considerazioni e interrogativi del tutto ovvi. Ma mi sembra che i contraccolpi globali della pandemia sulle società umane, loro idee, culture, abitudini, comportamenti, non possono al momento essere facilmente immaginati. Perché? Anche in questo, ciò che la politica immagina e prevede ha il respiro corto. In parte è bene che sia così. Si naviga a vista e si fa giustamente ciò che è possibile con tutta la concreta modestia dei mezzi immediatamente a disposizione. Ma questa immediatezza di che materia è fatta? E' fatta dei consueti e più elementari ingredienti della vita politica: competizione fra avversari, potere da mantenere e accrescere, conservazione delle proprie identità, rivendicazione dei propri meriti, non riconoscimento degli errori e infine risorgenti e tanto istintivi quanto indecenti orgogli nazionalisti.

 

La materia con cui si fa politica è anzitutto questa. Gli accordi e le trattative internazionali vengono dopo. Oggi al vertice del potere mondiale ci sono uomini politicamente senza dubbio abili, ma non altrettanto affidabili e lungimiranti. Mostrano con straordinaria chiarezza che il compasso della loro mentalità e vocazione politica è sproporzionatamente ristretto quando si tratta di problemi mondiali. Di fatto Trump, Xi Jinping e Putin dominano o vorrebbero dominare il mondo: ma prima del mondo per loro ci sono gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, che misurano il mondo secondo la loro voglia di estendere o rafforzare la propria presenza economica e politica. Infine viene l’Europa, entità traballante e a guida incerta. Mettersi d’accordo è una pratica sperimentale complessa, e soprattutto lenta. Esistono gli stati nazionali, i governi e gli schieramenti, le classi sociali più o meno identificate e le corporazioni degli esperti: quindi divisioni e conflitti abbondano.

 

Per esempio. Da un lato c’è oggi il partito del “tutto come prima”, della continuità e del progresso, del nihil sub sole novi. Dall’altro il partito del “niente come prima”, della discontinuità, del rovesciamento dell’idea di progresso, del mutamento del tipo di sviluppo. Ho parlato di due partiti perché anche quando si tratta di idee finisce per prevalere il movente politico. E non credo di sbagliare molto se dico che la politica sono i politici, oggi piuttosto scadenti dovunque, e che comunque le personalità costruite su vocazioni e istinti politici non smettono di ubbidire a impulsi competitivi anche in punto di morte. I politici vogliono anzitutto vincere, e non dire cose più vere e più utili per l’intera società e l’intero mondo. Ancora oggi, la stragrande maggioranza dei politici ha una formazione e mentalità localistica, perché i loro elettori sono localizzati. In tempi normali (se esistono) la varietà e le diversità possono essere un valore e una ricchezza. In tempi di emergenze estreme le divisioni che provocano sono una maledizione.

 

Questa pandemia costringe, se non sbaglio, a vedere le cose in una prospettiva più ampia di prima, anche se “patriotticamente” ci si compiace anche se i paesi confinanti hanno un numero di contagi e di vittime maggiore del nostro. Per questo lo sventolamento del tricolore italiano nel corso di una emergenza epidemica lo trovo insopportabile e penoso. Dato che il diabolico virus marcia su una complessissima rete di rapporti ambientali che uniscono o connettono nazioni e popoli, si tratta di mettere in primo piano più ciò che unifica che ciò che divide. Più che gli stati e i governi nazionali dovrebbero funzionare le organizzazioni internazionali di ogni tipo, la cui vita di solito si risolve in formalità cerimoniali e manifestazioni di burocratica impotenza.

 

Dato che lui, come esperto mondiale di “reti”, non ha rivali, ho ascoltato con speciale interesse le riflessioni meta o transpolitiche di Bill Gates. Pare che rispetto all’attuale catastrofe sanitaria il creatore e padrone della Microsoft sia stato preveggente: in cima alle sue preoccupazioni per il futuro mise il possibile scatenarsi di virus incontrollabili. Ora insiste sul fatto che urgono aiuti dai paesi più ricchi a quelli più poveri, non per ragioni umanitarie ma perché se la pandemia esploderà lì dove i sistemi sanitari sono vicini allo zero (in un solo ospedale di Manhattan ci sono più letti di terapia intensiva che nella maggioranza dei paesi africani) allora il contagio tornerà da noi ripetutamente e non meno minaccioso. Perciò i nostri capi di governo dei paesi sviluppati dovranno lavorare insieme e assumersi la responsabilità di fare del bene a chi non ha mezzi per fare del bene a sé stessi anche in futuro. Lavorare insieme, collaborare, trovare accordi, prendere decisioni efficaci e rapide. Di che genere di politica e di politici abbiamo bisogno? Se ne vede traccia? Se è vero che l’intera umanità è interconnessa e biologicamente interdipendente oggi più che mai, la cultura dei ceti politici andrebbe riformata o rifondata. Vanno mandati a scuola e il programma è vasto…

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